lunedì 18 maggio 2015

Sullo scrivere il proprio elogio funebre e sulla sanità mentale (che non c'è)

Vivere sola in un bi-locale in un paese di profonda provincia nella Pianura Padana, con un gatto nero di peluche, a cui talvolta racconto i miei travagli interiori (il gatto sembra in media più interessato dell'alce proveniente da un negozietto di giocatoli dell'aeroporto di Stoccolma) non fa bene alla mia sanità mentale. Per fare un esempio, la settimana scorsa o quella prima -il tempo si comprime e si dilata come il soffietto della fisarmonica nella sua monotonia- ho scritto il mio elogio funebre. Non che stia pensando a gesti estremi, o chissà cosa. Stavo solo copiando un'idea di Chuck Lorre, quello che sceneggia/produce serie Tv come the Big Bang Theory (per dirne una). Alla fine di ogni puntata di questa serie, per pochi secondi, compare una schermata scritta fitta che contiene pensieri, racconti, sketch di Chuck, che si può leggere solo facendo un rapido fermo immagine.  In una delle ultime puntate c'era appunto, il suo ideale elogio funebre, auto-prodotto. E io ho pensato, perché no?
Non vi tedio con questa cosa (che in realtà ha un intento assolutamente ironico, ma non mi viene in mente niente di più triste di un tentativo umoristico che non faccia ridere, quindi ve lo evito), però mi ha indotto ad una riflessione. Tra il leggere una cosa del genere e il pensare di voler scrivere davvero il proprio elogio funebre, c'è un passaggio mentale misterioso e  un po' inquietante che mi spinge a dubitare della mia sanità mentale.
Volendo poi (ma fosse sarebbe meglio non volerlo) addentrarsi un po' nel merito del pensiero espresso in quel breve brano si potrebbe riassumere così: ciao gente, è stato bello conoscervi (ma anche no) e mi raccomando non prendete mai esempio da me per le vostre scelte personali.
Cosa che, come dire, acuisce un po' il senso in inquietudine di cui sopra.
Quelle poche persone che hanno avuto "l'onere" di conoscermi sanno che non sono certo una persona che non si lamenta mai o che si possa definire soddisfatta di sé.
Pensare tuttavia che il messaggio conclusivo del mio passaggio terreno possa essere questo, in qualche modo, non me lo sarei aspettata nemmeno io da me stessa.
E' vero che quando si scrive, o ci si prova, vengono fuori i concetti che generalmente non sono "oggetto" del vivere. Ci si sposta, si pensa, si agisce, ma difficilmente ci prendiamo il tempo per organizzare le idee in delle preposizioni definite.
Per questo scrivere aiuta. Può aiutare a costruire o a distruggere, ma di certo rende i pensieri concetto, e ci obbliga a trovare le parole più adatte per farlo.
Questo può voler dire solo che ad oggi, se mi si chiedesse di riassumere chi sono, o che opinione ho di me stessa, la conclusione a cui arriverei è qualcosa del tipo: "possa la mia vita esservi di ispirazione per scegliere di vivere in modo completamente diverso da me".  Ci tengo a dire che comunque questo è meglio di niente; c'è del senso. E' un senso sbagliato, ma c'è (o come diceva Quelo di Guzzanti, la risposta è dentro di te, ma è sbagliata).
Immagino quello che potreste pensare, che questo dovrebbe spronarmi a cambiare... ma, no, non lo sarà, lo so. E non perché mi piaccia crogiolarmi nell'auto-commiserazione (ma anche un po' sì) piuttosto perché mi conosco, non succederà. Questo significa che sono infelice? Forse, a volte, sporadicamente... piuttosto spesso. Ma in fin dei conti, chi se ne importa? Importanti sono le cose semplici: avere un bilocale, un lavoro, un gatto a cui parlare, un po' immobile forse, ma un buon ascoltatore (anche perché pure la cara Short Term Dory col suo problemino mnesico non regge il paragone con lui).
Nel frattempo mi è venuto in mente qualcosa di più triste della battuta che non fa ridere. Sono stata al Salone del Libro di Torino e ho assistito ad un incontro con Bjorn Larsson per la presentazione dell'ultimo suo libro pubblicato da Iperborea. Al temine un tipo dell'audience ha preso la parola e ha chiesto a Bjorn se si ricordasse di lui, e lo scrittore visibilmente imbarazzato ha ammesso di no e ha chiosato che gli capita spesso che la gente pretenda di esser riconosciuta ma dato il numero di persone che incrocia giornalmente, non può ricordare tutti. Ecco questo l'ho trovato molto triste,  per la piccola umiliazione che Bjorn è stato costretto a infliggere all'uomo, perché è successo pubblicamente, per lo sguardo deluso del tizio che sembrava tenerci a quella magari fugace e remota conoscenza con l'autore e doveva essere proprio convinto che quell'incontro fosse stato memorabile.
Ecco, si sbagliava.

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