sabato 20 settembre 2014

Can't we talk about something more pleasant? di Roz Chast

Ho scoperto solo ieri che Roz Chast è stata nominata nella longlist dei libri in lizza per il National Book Award nella categoria Non-Fiction. Sicuramente questo è il mio preferito in lizza (se si tralascia il fatto che è l'unico che abbia letto). La prima volta che ho incontrato Roz Chast è stato tra le pagine (digitali) del New Yorker (ignorate la mia psicopatologia che mi fa leggere il New Yorker per sentirmi meno incastrata in un pesino di provincia). E' una fumettista, indiscutibilmente molto brava, che fa non tanto del tratto del disegno (che è però molto originale, semplice, un po' alla Peanuts)  ma della ironia e delicatezza dei temi e del modo di trattarli il suo punto di forza.
Roz Chast in questa graphic novel racconta il rapporto con i suoi anziani genitori. Il titolo si riferisce a ciò le diceva la madre quando nelle discussioni veniva fuori qualche riflessione sul futuro, sulla malattia e peggio ancora sulla morte: "Si può parlare di qualcosa di più piacevole?"   Mettendo in atto una pervicace negazione di una realtà che si stava tuttavia realizzando proprio sotto gli occhi della figlia Roz, con l'invecchiamento e di conseguenza la decadenza fisica, la malattia dei genitori, che si trova poi a dover affrontare con grande disagio e in solitudine. Il libro però non è triste, è dotato della grande dote di raggiungere quelle zone di ombra e vulnerabili del lettore in modo ironico e senza patetismi, lasciando che a commuovere sia il concetto celato più che la parola scritta. Per quel che mi riguarda Roz ha fatto centro in modo diretto e direi chirurgico. Ha puntato a una zona debole, non poi così nascosta, l'ha smascherata,  creando una connessione con le mie paure e preoccupazioni  riuscendo però a farle risultare non sgradevoli grazie a una buona dose di leggerezza. Paure e preoccupazioni che sono sicuramente parte, prima o poi, della vita di tutti.
Mi risulta che ancora non sia stato tradotto, un vero peccato.

Smashed di James Ponsoldt

Ammetto di aver trovato il film  nell'insensata ricerca di un intrattenimento che mi distraesse almeno un po' da quella cosa indescrivibile che è Breaking Bad (ho visto l'ultimo episodio da poco non mi sento ancora in grado di parlarne). Ho trovato per caso questo filmetto indipendente e ho scoperto che nel cast c'è Aaron Paul che recita la parte di un Jesse Pinkman alcolista (di nome Charlie); non ho saputo resistere.
La storia è molto semplice: Kate a Charlie sono due giovani coniugi alcolisti. Vivono un una realtà dove Kate affianca al lavoro di maestra elementare delle ubriacature serali a cadenza quotidiana e un continuo stato post-sbornia diurno. E' il loro modo di vivere, di divertirsi, di trovare una connessione tra di loro. Un giorno però Kate si accorge che questo stile di vita la sta portando verso un limite che non si sente di voler oltrepassare. Decide quindi di affidarsi a un gruppo Alcolisti Anonimi e questo comporta una crisi nelle dinamica del rapporto con il marito. Kate non solo è vittima di una dipendenza, ma anche di un ambiente familiare in cui la scelta ritenuta dallo spettatore come giusta, tornare sobria, viene vissuta come una forma di snobismo; smettere di bere diventa il voler essere diversi dalle persone con cui condividi l'esistenza, volersi elevare al di sopra di loro, giudicandone il comportamento. Per questo la protagonista deve affrontare una battaglia su due fronti, soffrendo in solitudine le proprie scelte e decidendo di perseguire quest via anche a costo di subirne tutte le conseguenze. Questa riflessione rende il film più profondo di altri sullo stesso genere, e trasforma un piccolo lavoro indipendente in un prodotto originale. La scrittura è essenziale, leggera e fa da contraltare ad una tematica molto impegnativa, producendo un lavoro condotto in modo intelligente. Spicca l'interpretazione di Mary Elisabeth Winstead, attrice che devo ammettere di aver ignorato fino ad ora. Consiglio di dare una chance a questa breve pellicola, ben scritta e altrettanto ben diretta, con un finale commovente e realistico, cosa piuttosto rara, tra l'altro.

mercoledì 11 giugno 2014

Il "mio" cinema danese

Molti anni fa, grazie ad una amica internettiana con cui, purtroppo, ho perso ogni contatto, ho iniziato a conoscere alcune opere di vari registi accomunati dall'essere di nazionalità danese. Pellicole molto diverse tra loro, ma forse, a guardar bene, accomunati da certe atmosfere o scelte stilistiche. La cosa mi ha preso un po' la mano nel corso degli anni... Lungi da voler e poter fare un'analisi specifica di una intera ed eterogenea filmografia, mi sono riproposta stasera (in una nottata di reperibilità che si prospetta, per buona parte, insonne) di elencare e suggerire ad un fantomatico lettore del blog, alcuni dei film che ho preferito. NB: salto a piè pari tutto Lars von Trier, non ho la forza né la capacità di infilarmi in quel mondo controverso che è la  sua filmografia, il mio intento è quello di citare dei film che immagino siano molto meno conosciuti.

Le mele di Adamo di Anders Thomas Jensen del 2005

Parto subito da uno dei miei preferiti in assoluto.
E' la storia di un ex-detenuto neonazista, Adam (il mirabolante Ulrich Thomsen) che viene affidato per il proprio recupero sociale a un pastore protestante, Padre Ivan (Mad Mikkelsen, Hannibal quando ancora non se lo filava nessuno). Padre Ivan è dotato di un inverosimile ottimismo. Crede fermamente nel bene ed è convinto di poter rieducare Adam. Come primo passo lo induce a crearsi un primo obbiettivo da raggiungere e Adam decide che vuol fare una torta di mele (le mele di Adamo del titolo). Ne succedono di tutti i colori: arrivano i corvi, poi un fulmine cade sull'albero, tutto congiura contro la torta di mele, ma Padre Ivan, contro ogni evidenza, insiste per far raggiungere ad Adam l'obiettivo prefissato. Detto così sembra un film normale, anzi noioso. Ma non lo è. Oh, se non lo è!
Innanzi tutto l'ottimismo di Padre Ivan si manifesta con una sistematica negazione del reale. Il suo sguardo è deformato. Suo figlio è gravemente disabile, ma lui non sembra esser consapevole, le altre persone che vivono con loro commettono atti malvagi, Adam gli punta una pistola alla testa, ma lui agisce come se tutto ciò non accadesse. Il male non lo vede nemmeno quando gli cade sotto gli occhi, anzi, finisce per giustificare le azioni orribili delle persone che lo circondano, senza battere ciglio. Il film, in un crescendo di episodi surreali, finisce in modo inverosimile ma donando momenti di vero umorismo nero (di quelli nei quali, a pensarci bene ti rendi conto che da ridere non c'era proprio niente, ma se lo riguardi una seconda volta, ne ridi di nuovo). Oltre a questo Le mele di Adamo offre lo spunto per una riflessione semiseria su cosa sia il bene e il male, su quanto conti l'occhio di chi guarda nel giudicare le azioni e su come le cose finiscano spesso in modo molto diverso rispetto a quello che ti aspetti, a prescindere da quanto ti sforzi, per esempio, per buttare tutta la tua nel secchio dei rifiuti. Questa scena è un esempio di quello che sto tentando di dire (la scena è un po' forte, vi avverto).


Non desiderare la donna d'altri di Susanne Bier del 2004

Questo film il cui titolo originale è semplicemente Brodre (Fratelli), è stato oggetto di una riedizione USA del 2009 (Brothers) di Jim Sheridan (ma che è successo al Jim Sheridan di Il mio piede sinistro e Nel nome del padre?)  che ha il difetto di avere come protagonista Tobey McGuire invece del meraviglioso Ulrich Thomsen. Per il resto è quasi identico e assolutamente superfluo. Esisteva già questa bella pellicola della Bier che raccontava la storia di un soldato fatto prigioniero in Afghanistan e ritenuto deceduto che invece viene liberato dopo diverso tempo e torna in patria molto cambiato e inizia a dubitare del rapporto che il fratello Jannik ha creato in sua assenza con sua moglie.  Delle interpretazioni potenti e tormentate, una storia che tiene incollato lo spettatore, forse non originalissima (o magari lo sembra perché  è stata ripresa in seguito in vari modi), ma ben diretta e molto commovente. (Suvvia il film di Sheridan se lo concedano tuttalpiù  le fan di Jake Gyllenhaal, che poi è il motivo per cui l'ho guardato io). 



Dopo il matrimonio di Susanne Bier del 2006

Rieccoci alla Bier, regista amata in Europa e non solo (ha vinto l'oscar nel 2011 e questo film era stato nominato come film straniero nel 2007) che suole parlare nelle sue opere di dinamiche familiari ed etica della vita quotidiana (mmm, lo so, sono frasi fatte, ma a volte aiutano). Questo film, secondo me, è il suo migliore. Racconta la storia di un uomo impegnato in missioni umanitarie (il fascinoso Mads Mikkelsen - lo so che potrebbe sembrare che in Danimarca ci siano solo due attori famosi e bravi, ma invece son sicura di averne contati 4 o perfino 5), che riceve un invito da parte del marito di una sua ex a tornare in Danimarca per ricevere una sostanziosa donazione benefica. Dietro questo gesto, però si celano ben altri intenti che diventano palesi il giorno del matrimonio della figlia di questo ricco e apparentemente generoso mecenate e che mettono il personaggio di Mikklesen di fronte verità scomode e a scelte decisive e dolorose. Si tratta di un film dalla storia molto realistica e struggente, diretto magistralmente da una Bier che collabora con il Jensen delle mele di Adamo per scrivere una sceneggiatura originale con buon ritmo e dialoghi azzeccati, mai troppo drammatici e  che analizza le relazioni umane fin alla radice (il rapporto padre-figlia, in particolare, è reso con molto realismo e delicatezza).  
Una nota di merito aggiuntiva va alla scelta di inserire nella colonna sonora Vaka (o untitled1) dell'album ( ) dei Sigur Rós (una meraviglia). 
[Non ho trovato una scena del film con Vaka che non contenesse spoiler, peccato, metto il trailer]. 


Festen di Thomas Vintemberg del 1998

Quì vado sul banale, lo cito solo en passant perché credo che lo conoscano tutti. Film Dogma #1 del movimento Dogma 95, di cui Vintemberg è stato uno dei fondatori con von Trier (entrambi poi si si sono discostati fino a terminarlo nel 2005) che, come insegna Corrado Guzzanti in una imitazione di Ghezzi, consisteva nel "il divieto per le persone alte 1.95 m di entrare al cinema per non oscurare la visuale alle persone sedute dietro di loro".
Ecco, nel caso di Festen, avere la visione ofscurata da uno alto 1.95 sarebbe un peccato, però potrebbe salvare lo stomaco di qualche spettatore. Una delle caratteristiche "dogmatiche" del film è infatti la ripresa fatta solo con telecamera a mano (in epoca molto precedente a theBlair Witch Project, REC e compagnia bella), con sobbalzi degni di montagne russe e concomitante cinetosi. Però dura poco. E' la breve e drammatica storia di una festa rovinata, grazie alla messa a nudo dell'ipocrisia, il dissotterramento di antiche colpe, allo scopo di provare a scacciare complessi e angosce del passato, altrimenti inconsolabili. 
Vabbè, c'è quel pezzo di attore di Ulrich Thomsen (ma che ve lo dico a fare), ma anche una brava Paprika Steen (che era anche ne le mele di Adamo ed è la terza dei quattro attori che citavo prima). 
Se non lo avete visto vedetevelo, ma stomaco vuoto. 


Pusher di Nicolas Winding Refn del 1996

E' il 1996 e Refn non si immagina certo che nel suo futuro ci sarà Drive e Gosling con il giacchetto scorpionato. Totalmente inesperto si mette a girare un film semplice, di quelli che parlano di spacciatori piccoli che fanno una qualche cavolata e si trovano a dovere un sacco di soldi a spacciatori più grossi. Prende un Mikklesen (non ve lo aspettavate eh), rasato, pallido ed emaciato, agli esordi assoluti, e lo mette di fronte ad una macchina da presa a scappare e lottare per la sopravvivenza nei quartieri malfamati di una Danimarca violenta da far paura. La cosa gli riesce bene, il film diventa di culto, e ne gira altri due, forse migliori del primo. Pusher II e Pusher III (fantasia al potere). 
Disturbante, inquietante, consigliato a chi ha amato Trainspotting ed è pronto a vedere di peggio (ma meglio - forse).



L'eredità di Per Fly del 2003

Il potere economico, lo status sociale quanto cambiano le persone? O meglio, quando si passa dall'altro lato, quando si diventa parte di quel mondo che prima si criticava aspramente, è possibile non diventare un tutt'uno con questo, ma mantenere il proprio modo di vedere le cose, la propria integrità? Per Fly ci racconta la storia di Christoffer, un cuoco che dopo il suicidio del padre si trova a dover prendere le redini della acciaierie e dell'impero finanziario lasciatogli in eredità. La risposta del Regista alla questione è chiara, l'etica muta con le condizioni, non esiste un punto di vista univoco, il cambiamento, come adattamento e compromesso, altera e corrompe Christoffer nel profondo, minando anche la sua sanità mentale. Questo film, fortemente sponsorizzato dal caro von Trier, è stato anche criticato e tacciato di aver banalizzato i contenuti pur partendo da buone premesse. A me ha colpito per la capacità di mostrare le varie fasi della mutazione del protagonista e per il contenuto espressamente "politico" sebben non del tutto sviscerato. Guardatelo, poi mi fate sapere. Ah, indovinate chi recita la parte di Christoffer? Sbagliato! il fantastico Ulrich Thomsen (uh, ma ormai dovreste saperlo, quello biondo è Ulrich, quello moro è Mads). 


La ricostruzione di un amore di Christoffer Boe del 2004

Questo film me lo ricordo veramente poco. C'è un tizio (Nikolaj Lie Kaas) che incontra una donna e se ne innamora perdutamente, tanto da lasciare la fidanzata. Il giorno dopo però scopre che nessuno tra amici e colleghi lo riconosce più e quello che era il suo appartamento è completamente diverso. Io mi aspettavo che finisse con un complotto internazionale invece... Non dico altro. [Pure il trailer senza accenno ai dialoghi non aiuta, sembra una congiura per non far capire la trama]. L'ho citato per due motivi: il primo perché quando l'ho visto mi è sembrato particolarissimo è molto ben fatto, assolutamente surreale. Il secondo è perché non c'è nessuno dei due attori culto, Ulrich e Mads, bensì oltre al già citato Nikolaj Lie Kaas (che poi era il fratello Ulrich di Non desiderare la donna d'altri), anche Nicolas Bro (che era uno dei soggetti strani che vivevano alla parrocchia di Padre Ivan in Le mele di Adamo), così ne ho citati perfino 5, di attori. In realtà l'ho nominato anche per poter dire due parole del regista, Christoffer Boe, che è autore di un altro film per iper-cinefili, parecchio strano, e penso più famoso, che si intitola Allegro, straordinariamente complicato, tanto che pure questo, per poter dire qualcos'altro, lo dovrei prima rivedere.

Sono arrivata all'ultimo film che voglio nominare, certa che non esiste essere umano che possa esser arrivato fin quì. 


Il sospetto di Thomas Vintemberg del 2012

Mentre trepidavo in attesa dell'annuncio del vincitore dell'Oscar per il miglior film straniero, a Marzo scorso, tifando per Sorrentino, in cuor mio mi sentivo una traditrice. Thomas Vintemberg era infatti tornato ai fasti di Festen, ed era in lizza con questo Il sospetto, io però non me la sentivo di non tifare per il connazionale. Quello di Vintemberg è film piuttosto diretto, realistico, "senza fronzoli", che racconta di un insegnante accusato di pedofilia, in un ambiente provinciale dove le malelingue sono in grado rovinare la vita di una persona anche senza alcuna conferma ufficiale delle accuse infamanti. La caccia alla selvaggina diventa metafora della caccia all'uomo, prima oggetto di infamia e poi esaltato come vittima in base a come cambia il vento. Vintember sembra pensare anche al padre di Festen in modo però diametralmente opposto.  Se lì la colpa non era oggetto di discussione, qui invece il dubbio, il sospetto è il primum movens della vicenda, e la storia racconta la fragilità di ognuno di noi, in balia di sospetti e accuse in grado di rendere la nostra vita miserabile. 
Per quanto riguarda l'Oscar, si sa come è andata a finire; a conclusione dello sproloquio vi incollo la risposta su twitter del gentilissimo Ulrich Thomsen ad un mio commento sulla possibile vittoria dell'Italia all'Oscar. :-) (smiley face). 


   

martedì 10 giugno 2014

In ordine di sparizione di Hans Petter Moland

Stellan Skarsgård è Nils Dickman, un immigrato in Norvegia soddisfatto della propria semplice vita familiare e del proprio lavoro da spazzaneve, per cui ha appena ottenuto il titolo di cittadino dell'anno. In mezzo a tutta quella neve e silenzio, la sua esistenza è routinaria e rassicurante. Questo incanto si rompe quando suo figlio viene ucciso. Da quel momento la sua vita sarà completamente devoluta alla vendetta. Dickman imbraccerà le armi lasciando dietro di sè una lunga scia di omicidi di personaggi sempre piuttosto sopra le righe, dal killer ossessivo e vegano, alla coppia di scagnozzi gay che intrecciano una relazione segreta, al gruppo di criminali serbi, capitanati da Bruno Ganz, tanto spietati quanto imbranati. Uno dopo l'altro i personaggi appaiono e scompaiono in un rutilante e balletto che, come recita un commento dell'Hollywood reporter riportato sul cartellone del film "unisce la vendetta Tarantiniana all'ironia dei Coen". Tarantiniano infatti è non solo il modo freddo, brutale ma al tempo stesso ridicolo con cui viene sparsa questa discreta quantità di sangue, ma anche la scelta di alcuni dialoghi tra i killer che rimandano, per citarne uno, a Pulp Fiction. Coeniana appare invece la sagacia e il modo surreale di raffigurare questa vendetta, senza rinunciare a uno sguardo amaro sull'esistenza di alcuni dei personaggi presentati. In questo contesto umano l'atmosfera immobile del paesaggio fa da contrasto perfetto all'azione. Il regista norvegese Moland riesce a creare un'opera comunque originale, sebbene ricca di rimandi. Mentre con i propri tic alcuni dei killer finiscono per somigliare più a icone che a persone, Nick Dickman raccoglie in sè tutte le sfumature di una esistenza spezzata, privata del proprio equilibrio e senso, senza niente da perdere, che mi ha ricordato il Sordi di Un borghese piccolo piccolo. Perfetto Skarsgård con il suo sguardo malinconico e l'aspetto serafico anche nei momenti più truci, degno di nota Bruno Ganz, che fa da centro di alcune delle situazioni più divertenti del film. Un film che rimarrà impresso nella memoria di molti cinefili (presentato all'ultimo festival di Berlino, dove non ha vinto nulla, vabbè).



domenica 1 giugno 2014

Oltre il confine - Cormac McCarthy

Secondo racconto della trilogia della frontiera (unico dei tre che per ora abbia letto), Oltre il confine si inserisce nel filone dei racconti del west e appare vicino come temi ed atmosfere ai suoi primi lavori (Meridiano di Sangue, per citarne uno).
Il romanzo si divide in quattro parti che sanciscono momenti di passaggio nella vita del protagonista, Billy Parham. Billy è un ragazzo americano nella cui esistenza, dura come può essere quella del figlio di un povero allevatore nella campagna del sud degli Stati Uniti nella prima metà del ventesimo secolo, accadono, in epoca troppo precoce, avvenimenti terribili che lo portano ad attraversare più volte il confine con il Messico.
Si tratta, di fatto di un romanzo di formazione, vediamo infatti cambiare Billy nel tempo e ne cogliamo la maturazione appresa attraverso l'esperienza. Tra le tematiche che ricorrono nel racconto c'è in  primo luogo il ruolo delle scelte. Fermarsi, invertire la direzione di marcia del suo cavallo e ripartire sono gesti che non solo imprimono una svolta nella storia, ma sono il fulcro della presa di coscienza e della crescita di Billy.
Ciò che muove il ragazzo è in più riprese un imperativo, la necessità riportare qualcuno casa sua, rimettere gli eventi nel loro giusto ordine, aiutare le cose a ritrovare il loro posto nel mondo, dopo che è successo qualcosa di apparentemente irreversibile. Non è solo il tentativo "infantile" di un adolescente di negare il cambiamento, piuttosto la necessità di credere che possa esistere qualcosa di giusto nel mondo, anche quando le disgrazie provocate dall'uomo sembrano negarlo. Billy subisce gli eventi, subisce anche le scelte altrui, ma sembra voler fare il possibile per ribellarsi a questa logica ferrea che governa le cose. Ciò che Billy impara sulla vita, smorza il suo idealismo, scalfisce la sua umanità, senza tuttavia riuscire a distruggerli.
Nella prima parte del libro, secondo me magistrale, la lotta di Billy per catturare una lupa e poi per "riportarla a casa", esemplifica la fatica umana per determinare il proprio e l'altrui destino dovendo fare i conti con le violente reazioni di altre esistenze indifferenti ai bisogni e ai desideri del giovane protagonista così come a quelle di ognuno di noi.
Per me i libri di McCarthy oltre a rappresentare quanto di più bello si possa leggere ad opera di un autore contemporaneo, sono anche un'alta prova di scrittura, spesso priva di sfarzo linguistico, espressione di un lavoro di cesello e che non indugia nell'autocompiacimento. L'opinione dello scrittore sul male che compenetra il mondo, spietata e spiazzante, emerge attraverso concisi dialoghi filosofici dei protagonisti ma anche insita nello svolgimento dei fatti. Oltre il confine è una lettura a tratti poco scorrevole, che necessita attenzione, ma che lascia al lettore il piacere della scoperta di un classico moderno in tutta la sua bellezza e complessità. 

giovedì 22 maggio 2014

Back to Tori

Rieccomi ad ascoltare un nuovo album di Tori Amos. Per una fan di vecchia data gli ultimi dieci anni sono stati un vortice discendente con pochi, pochissimi, momenti degni di essere ascoltati. E' passato del tempo ormai da quella cosa strana di Night of Hunters, nel quale ha riarrangiato musica classica per farne stranezze pop (con un contributo rinunciabile della figlia Tash), o da Midwinter Graces, prima e  speriamo unica raccolta natalizia-invernale della nostra. Era il 2008 quando ha dato alle stampe  Abnormally attracted to sin che mi confermò l'opinione che peggio del precedente American Doll Posse non avrebbe potuto fare, un lavoro noioso con qualche canzone poco più che passabile, che non mi ha lasciato nulla.
L'evento dell'uscita di Unrepentant Geraldines, pochi giorni fa, non presentava quindi per me una grande attrattiva. Anzi, quando segui un'artista per quasi vent'anni ti sembra di conoscerlo e soffri un po' nell'ascoltare musica brutta, con quella sorta di imbarazzo che si potrebbe provare guardando un caro amico stonare di fronte a una platea piena.
Con un po' di timore mi ero preparata in anticipo leggendo delle recensioni su riviste del settore, molto diverse tra di loro. Il giudizio finale, ridotto ad un voto da 0 a 10 andava da un misero 4 di alcune ad un incoraggiante 7 di altre. Da "signorina torni la prossima volta" a "si impegna, ma potrebbe fare di meglio".
Il primo ascolto non mi ha entusiasmato. Mi sono accorta però che nel mucchio c'erano tracce che non avevo capito appieno. Questo, a mio giudizio, per certi artisti è una buona cosa; i brani che non arrivano al primo ascolto, quelli meno melodici, vantano un maggior complessità di costruzione che per me è spesso espressione di qualità. Una nota introduttiva: non si tratta di un concept album. Che sia un bene o un male, non so. A me viene da dire: per fortuna, date le passate esperienze a tratti orrorifiche caratterizzate da parrucche imbarazzanti e canzoni poco degne di tale nome.
Altra nota preliminare: siamo tornati a piano e voce, e non per rifare vecchie tracce e spillare soldi con arrangiamenti "quasi" nuovi a fan dalla capacità di giudizio parzialmente annebbiata, tipo me. Tori ha deciso di mandare il marito chitarrista a far la coda alla posta per le bollette in giorno di pensioni e  ha registrato tutto nel frattempo. Era l'ora, brava.
Ma veniamo alle tracce. La prima, America, soffre di una quasi eccessiva semplicità. Tuttavia il ritmo e le atmosfere, vicine a Scarlet's walk, rendono l'ascolto, per ora, gradevole. Dicasi lo stesso per Trouble's Lament e Wedding Day, che, tuttavia, a me piacciono meno.
Wild way è la  traccia carogna che a una come me non può far altro che commuovere, anche se è  "facile" (it is that easy?), che più di così non si può.
Nel mucchio c'è anche una canzone ritmica e scanzonata e un po' stupidina - Giant's rolling Pin- che mi ricorda lo stile di Wednesday (da Scarlet's walk) o della peggiore Goodbye Pisces  (da The Beekeper).
Poi d'un tratto in un giorno piovoso Tori si è messa ad ascoltare i Police e ha pensato: scrivere in questo modo riesce pure a me. Fu così che nacque il ritornello di Unrepentant Geraldines. Boh.
Veniamo quindi alle tracce che posso ammettere, finalmente, che mi piacciono (non credevo sarebbe successo di nuovo). Selkie: quanto tempo era che non veniva fuori dai suoi cd una canzone semplice ma con un po' di spessore! Oysters: forse la migliore in assoluto. Niente di eccezionale, ma il meglio della Amos che ho sentito da anni.
Le canzoni brutte (ma tanto brutte) ci sono, sono una certezza degli ultimi anni, non c'è da allarmarsi.
Non è riuscita a trattenersi da far fare una comparsata alla figlia Tash nella banalotta Promise. Che dire di Rose dover? anche nulla, va. La traccia extra della versione deluxe (White telephone to God) poteva tranquillamente rimanere chiusa nel cassetto del comò, secondo me nessuno di sarebbe disperato.
Se da un lato non è tornata (in modo che sarebbe risultato forse anacronistico) ai fasti di From the choirgirl hotel o Under the pink, si intravede della luce in fondo, in fondo, in fondo al tunnel. Come dice una vecchia barzelletta, speriamo non sia un camion contromano.
Il mio giudizio complessivo è questo: signorina, si intuisce il suo l'impegno, a tratti vicino a sfiorare alcune vette passate, anche con una vaga promessa di un'ulteriore evoluzione futura che oserei definire originale. Il mio giudizio è influenzato dal confronto con le precedenti nefandezze, le do un 7 di incoraggiamento. Lo prenda, però, non faccia lo scherzo di rinunciare, perché al prossimo appello potrei aver messo giudizio e rischia di dover ripeter l'anno.


Pregiudizi

Sarà perché io gli scrittori li idolatro. Mi aspetto che siano persone al di sopra della norma, con capacità e qualità sovrumane. Non parlo di integrità morale (non esser viziosi, non sperperare denaro o frequentare bordelli), mi riferisco all'integrità intellettuale. Le loro menti sono capaci di generare storie e personaggi che diventano reali e occupano uno spazio fisico nel mio mondo, riescono a non farmi dubitare mai dell'esistenza di Macondo, mi fanno vedere gli occhi tristi di Oliver Twist in orfanotrofio o mi portano a girellare per New York con Holden Caufield. Quelle menti non possono essere contenute nella scatola cranica di persone comuni e un po' grigie, come me. O meschine, o razziste. 
Per questo la scoperta di alcuni dettagli sgraditi della storia privata di qualcuno di loro mi ha fatto disamorare nei confronti delle loro opere. Vi avverto, sto per scrivere vere e proprie "oscenità". 

Il vecchietto delle anatre
Ero alle medie quando ho letto L'Anello di re Salomone, forse il lavoro da scrittore più famoso di di Konrad Lorentz. Nelle fotografie appare sempre come un affabile, canuto e panciuto vecchietto, di quelli che ispirano simpatia. In realtà era un etologo molto conosciuto nell'Austria dei suoi tempi, poi vincitore del Nobel per la medicina. In quel testo racconta, in modo molto piacevole, il metodo con cui studiava e influenzava i comportamenti degli animali. In particolare ricordo il racconto sulle anatre; sostituitosi a madre anatra, al momento della nascita degli anatroccoli, era stato riconosciuto da loro come vera figura materna e da allora era seguito ovunque da questo corteo di anatroccoli, riuscendo  così a studiarne il linguaggio e il comportamento. 
Molti anni dopo, con ancora quel ricordo tenero dell'adolescenza, ho scoperto chi fosse davvero Lorentz. Si dà il caso che la "l'Austria dei suoi tempi" fosse quella del Terzo Reich. Si dà il caso inoltre che lui non solo fosse nazista, ma perfino un teorico dell'eugenetica e esprimesse pensieri tipo questo: « Dovere dell'eugenetica, dovere dell'igiene razziale dev'essere quello di occuparsi con sollecitudine di un'eliminazione di esseri umani moralmente inferiori più severa di quella che è praticata oggi. Noi dovremmo letteralmente sostituire tutti i fattori che determinano la selezione in una vita naturale e libera" (preso in prestito da wikipedia). Questo scoperta ha sporcato talmente il mio giudizio da provare ancora un certo disgusto nel ricordo , fortunatamente sbiadito, di quella lettura. 

Il genio francese

Se per Konrad la brutta scoperta è avvenuta anni dopo aver terminato la lettura, mi è andata peggio con un grande scrittore francese. Sì. Sul serio. Parlo di Louis Ferdinand Céline. Parlo di Viaggio al termine della notte. Dire che mi stesse piacendo non è appropriato. Avevo sotto gli occhi un capolavoro della letteratura. 
Cosa può rovinare l'idilliaco rapporto che si crea tra un lettore e una storia con tutte le caratteristiche per poter diventare un punto di riferimento culturale? Ebbene, anche il caro Céline (come forse tutti, tranne me, già sapevano), medico, laureatosi con una tesi sul dottor Semmelweis (un ginecologo che per la prima volta nella storia aveva osato divulgare il fatto che i medici, udite udite, devono lavarsi le mani tra una visita e l'altra, per evitare morti per sepsi puerperale nelle pazienti - ma meglio non divagare), che aveva lavorato come medico dei poveri a Montmartre, quell'ometto che sembra consumato dalla vita, originalissimo anche linguisticamente, dalla incontestabile genialità, era anche lui un feroce antisemita. Così come Lorentz era un "teorico" dell'antisemitismo, argomento affrontato in alcuni pamphlet tra cui la Bagatelles per un massacro. Come dice Carlo Bo (trafugato nottetempo da wikipedia): « Negli anni Trenta, Céline vantava (forse più di ogni altro) un bel curriculum di antisemita, ma dopo il '40 andò oltre imboccando un razzismo scientifico, quale a suo avviso neppure i nazisti osavano sperare… Non si può non continuare a chiederci come mai uno scrittore di quella forza e di quella novità si sia lasciato trascinare da uno spirito più che polemico, predicatore di morte e di rovine. » Con vergogna ammetto di non esser riuscita a proseguire la lettura di Viaggio al termine della notte. Una delusione cocente, niente a che vedere con quella di Lorentz. 

La giornalista fiorentina

Un accenno rapido ad un'altra situazione simile. In questo caso il discorso sarebbe più profondo e il pregiudizio è influenzato dalla mia ignoranza sulla reale visione del mondo di questa scrittrice. Parlo di Oriana Fallaci. Non ho letto molto di suo, solo Lettera ad un bambino mai nato. Questo per un motivo preciso: La rabbia e l'orgoglio. Quando ho letto l'articolo sul Corriere, il 29 Settembre 2001, ancora, come tutti, frastornata dagli avvenimenti recenti, mi ha provocato rabbia e disgusto. Nell'articolo la Fallaci a partire dai tragici eventi dell'11 Settembre, racconta la sua visione sul mondo islamico, fatta di giudizi perentori e molto negativi su un'intera cultura. Ho pensato che fosse stato scritto sull'onda emotiva dei fatti e quindi carico di una eccessiva acredine che rende qualsiasi visione offuscata dall'odio e insopportabile. Ho trovato tuttavia incredibile che una giornalista e scrittrice del suo calibro, con la sua intelligenza, finisse in quel gorgo. Da allora non ho letto altro di suo.

Temo che il mio problema risieda nella incrollabile speranza, eccessivamente ingenua, che alcuni principi etici prescindano dalla contingenza, e che possano accomunarci tutti. 
Se è vero, chi più di un artista dovrebbe incarnare questo concetto? Ma ho come il dubbio non lo sia. 
Ancora mi chiedo se l'opera possa davvero essere considerata a sé. Certi giorni riesco quasi a convincermi di questo e mi vergogno dei miei pregiudizi. 
Nessuna debolezza o mostruosità di Konrad, Louis Ferdinand o Oriana dovrebbe essere in grado di annebbiare il mio giudizio sulle loro opere.  

Letting go

C'era un problema laggiù, in fondo alla strada. Lo scorgevo chiaramente, sapevo dove trovarlo, sapevo quanto fosse importante. Rimaneva lì, fisso a studiare le mie mosse, consapevole di  essere visto.
Ogni volta che facevo un passo per nascondermi dietro l'angolo lui si sporgeva, piegando il busto in avanti, per tornare nel mio campo visivo, mimando noncuranza. Cercavo di non farmi vedere il viso, perché sapevo che si sarebbe accorto dalla mia espressione di quanto quel problema influisse sull'andamento della mia giornata. Ero certa, però, che sapesse sempre dire quanto e in che modo pensassi a lui. Era un problema che non voleva essere risolto, pervicacemente intenzionato a restare. Sapevo che questa nostra corrispondenza, fatta di furtive occhiate e tentativi di nascondersi, sarebbe durata per tutto l'arco della mia vita se io, impegnata in questo inutile balletto, non mi fossi, nel frattempo, dimenticata di vivere.

domenica 18 maggio 2014

Gente come lei

"Gente come lei viene qui a portar via i nostri soldi!"
Ho alzato il capo dalla scrivania e incrociato lo sguardo severo del paziente seduto di fronte a me.
Concentrata nel tentativo di capire la situazione, avevo per un attimo perso il filo del discorso. In realtà avevo notato il tono di disprezzo e scherno, poco prima, quando si era accorto del mio accento palesemente toscano. Pensavo scherzasse, anche se, per non saper né leggere né scrivere, avevo evitato di sorridere. Il modo con cui mi guardava ora, però era inequivocabile, più delle sue parole.
Era stato inviato in consulenza urgente da un collega oncologo, era entrato nell'ambulatorio poco prima con la figlia. Appena lo avevo visto camminare avevo notato quanto grave fosse il problema.
Stavo pensando al modo migliore per escludere le cause più gravi del disturbo, quando ho sentito pronunciare quella frase.
Lì, di fronte a me avevo un signore di mezz'età, ben vestito e con un lessico piuttosto ricco, malato, forse gravemente, che mi rinfacciava, con severa lucidità, di aver preso armi e bagagli ed essermi trasferita nella sua regione per usurpare un posto di lavoro ai suoi conterranei e godermi dei soldi che non mi sarebbero dovuti spettare.
Se avessi avuto più tempo, quel lunedì, mi sarebbero venuti alla mente vari ricordi.
Due anni e mezzo fa: parlando con il mio capo di allora ho inequivocabilmente capito che per me, nel luogo dove mi ero formata e avevo lavorato per anni, non c'era posto.
Due anni fa: mi sono iscritta ad un concorso per un lavoro fuori regione e giunta in questo paese dall'aspetto non entusiasmante ho pensato che sebbene quel posto non fosse certo la mia massima aspirazione, forse l'unica cosa da fare era iniziare a ridimensionare le mie aspirazioni in base alle possibilità reali.
Un anno fa: ho ricevuto la chiamata per il lavoro e dopo un mese fatto di tormento interiore e incredulità ho trovato una casa nuova in un paese che non mi piaceva e con l'auto carica mi sono trasferita lì, conscia che in realtà avevo avuto molta più fortuna di diversi altri colleghi che non avevano ancora avuto la stessa opportunità.
Pochi giorni prima della visita; quando mi ero resa conto di quanto fosse cambiata la mia vita in poco tempo, ma anche quanto più complicata e vuota fosse diventata.
Ma non avevo tempo di soffermarmi su questi pensieri. Dovevo raccogliere informazioni, visitarlo, scrivere una relazione e proseguire con il paziente successivo, poi con quello dopo e così via.
Quindi ho abbassato lo sguardo sui fogli sparsi sul tavolo, ho proseguito la visita, consegnato i documenti e l'ho salutato.

Oliver Sacks: ovvero sull'essere antropologi su Marte

Quando si inizia la lunga salita che porta a diventare un qualche tipo di medico, ci si imbatte, in dirittura d'arrivo, su un'ulteriore cunetta. Affannati dal viaggio lungo sei anni, si deve scegliere se e quale specializzazione fare. C'è una fetta di colleghi della mia generazione che, avendo deciso di diventare neurologo, si ritrova poi, anni dopo, nei momenti di sconforto, ad offendere Oliver Sacks e diverse generazioni di suoi antenati per aver incoraggiato l'impresa.
Leggere Sacks, per chi è o vuole essere neurologo, è un gesto che fa parte della propria formazione.
I racconti di questo autore non sono articoli scientifici. Non si impara a diventare neurologo leggendolo. Si impara, semmai, a volerlo essere.
Nei suoi scritti, brevi o lunghi che siano, vengono raccontate le storie cliniche di pazienti affetti da particolari (ma talora anche comuni) malattie neurologiche. Lo stile dello scrittore non è molto diverso da quello di un romanziere profano alla medicina. La malattia è descritta nelle sue particolarità, si accenna talora alla storia della scoperta della patologia, vengono fatti rimandi a celebri neurologi che hanno contribuito a dare un nome a tali condizioni in epoche passate, ma il linguaggio non è strettamente settoriale. La scrittura è scorrevole e piacevole, in particolare nelle raccolte di racconti.
Sacks pone l'attenzione in primo luogo sul sintomo e sulla causa della  patologia ma poi si sofferma a raccontare anche come il protagonista, o, dovrei dire, il suo misterioso e affascinante cervello, sia riuscito a mettere in atto delle strategie volte a compensare il deficit. Quello che non fa, fortunatamente, è di indugiare sul dolore, mantenendo uno stile scarno, scevro da pietismi.
Lo scrittore è tuttavia piuttosto sgradito a parte della comunità scientifica che non ne apprezza la mancanza di metodo. Taluni ne disprezzano anche l'uso delle storie di pazienti, che invece che oggetto di casi clinici di interesse scientifico diventano protagonisti di storie. Insomma, Sacks è ritenuto un medico che sfrutta i suoi pazienti per farne letteratura.

Tra ciò che ho letto la mia raccolta preferita è sicuramente "L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello", ma oggi voglio parlare brevemente di un'altra, L'Antropologo su Marte. 
Si tratta di un testo che racchiude sette racconti. Quello che mi ha colpito di più è il primo, Il caso del pittore che non vedeva i colori. Si racconta  la storia di un pittore (Signor I) che in seguito ad un trauma cranico aveva selettivamente perso la capacità di percepire i colori. E questo, per un pittore, è, come dire, un bel problema. Col tempo il paziente inizia a cercare metodiche alternative per restituire colore al suo mondo pittorico senza riuscire mai a recuperare la visione colorata.
Questa breve storia è capace di aprire voragini enormi di domande, che, trattandosi di neurologia, per molta parte rimangono assolutamente non risposte.
Qual'è la natura del colore, il colore esiste o è una creazione dovuta alla visione colorata dell'uomo? E' implicito che la visione colorata sia distinta nel cervello dalla visione delle forme, ma come fa il cervello a vedere i colori? qual'è la localizzazione cerebrale della visione colorata? Le ipotesi si sono sprecate nel corso degli anni e Sacks ne esplora a grandi linee le principali. Tutto questo raccontando la storia del Signor I. che passa attraverso una fase di disgusto e rifiuto per la sua nuova condizione a quella di una dolorosa e rassegnata accettazione.
Quando ho letto questo libro ero sul punto di iniziare un lavoro di ricerca volto a capire come identificare e quantificare il danno causato da alcuni insulti (nel mio caso ischemici) cerebrali, che colpiscono le regioni posteriori dell'encefalo, e che possono determinare la perdita selettiva della capacità di riconoscere volti, luoghi, tipi diversi di stimoli visivi e, appunto, i colori. Stavo valutando pazienti con tale disturbo e appassionandomi alla letteratura e ho visitato pazienti con disturbi simili a quelli del Signor I.
In quel preciso momento Sacks mi stava raccontando quello che avevo sognato potesse essere il mio lavoro e che in qualche modo lo stava diventando. Mi stava dicendo che il cervello è il mezzo con cui vediamo il mondo e quindi studiandolo stavo facendo la cosa giusta. E questo nonostante non ci sia alcuna possibilità di capire tutto e in modo definitivo. Nonostante ci si possa passar la vita tentando.
La definizione di Antropologo su Marte è quella che una paziente autistca dà di se stessa, della sua difficoltà nel capire il mondo. Nei confronti della comprensione dei meandri del proprio cervello l'uomo ha gli stessi limiti, le stesse difficoltà, che avrebbe un marziano sulla terra, o, appunto, un antropologo su Marte. Oliver Sacks ce lo racconta senza rigore scientifico, da scrittore, clinico  appassionato e osservatore, restituendo con i suoi racconti il senso di misteriosa fascinazione di una mente incapace di capire pienamente se stessa ma esterrefatta di fronte alla propria complessità.


sabato 17 maggio 2014

Ci sono libri per riempire tante vite nella mia libreria, ci sono migliaia di film di cui ignoro ancora  l'esistenza,  ci sono pensieri che non son certa di saper tradurre in frasi.
Questo è quello che vorrebbe essere questa pagina. Solo un ennesimo blog perso nella vastità della rete.