giovedì 22 maggio 2014

Back to Tori

Rieccomi ad ascoltare un nuovo album di Tori Amos. Per una fan di vecchia data gli ultimi dieci anni sono stati un vortice discendente con pochi, pochissimi, momenti degni di essere ascoltati. E' passato del tempo ormai da quella cosa strana di Night of Hunters, nel quale ha riarrangiato musica classica per farne stranezze pop (con un contributo rinunciabile della figlia Tash), o da Midwinter Graces, prima e  speriamo unica raccolta natalizia-invernale della nostra. Era il 2008 quando ha dato alle stampe  Abnormally attracted to sin che mi confermò l'opinione che peggio del precedente American Doll Posse non avrebbe potuto fare, un lavoro noioso con qualche canzone poco più che passabile, che non mi ha lasciato nulla.
L'evento dell'uscita di Unrepentant Geraldines, pochi giorni fa, non presentava quindi per me una grande attrattiva. Anzi, quando segui un'artista per quasi vent'anni ti sembra di conoscerlo e soffri un po' nell'ascoltare musica brutta, con quella sorta di imbarazzo che si potrebbe provare guardando un caro amico stonare di fronte a una platea piena.
Con un po' di timore mi ero preparata in anticipo leggendo delle recensioni su riviste del settore, molto diverse tra di loro. Il giudizio finale, ridotto ad un voto da 0 a 10 andava da un misero 4 di alcune ad un incoraggiante 7 di altre. Da "signorina torni la prossima volta" a "si impegna, ma potrebbe fare di meglio".
Il primo ascolto non mi ha entusiasmato. Mi sono accorta però che nel mucchio c'erano tracce che non avevo capito appieno. Questo, a mio giudizio, per certi artisti è una buona cosa; i brani che non arrivano al primo ascolto, quelli meno melodici, vantano un maggior complessità di costruzione che per me è spesso espressione di qualità. Una nota introduttiva: non si tratta di un concept album. Che sia un bene o un male, non so. A me viene da dire: per fortuna, date le passate esperienze a tratti orrorifiche caratterizzate da parrucche imbarazzanti e canzoni poco degne di tale nome.
Altra nota preliminare: siamo tornati a piano e voce, e non per rifare vecchie tracce e spillare soldi con arrangiamenti "quasi" nuovi a fan dalla capacità di giudizio parzialmente annebbiata, tipo me. Tori ha deciso di mandare il marito chitarrista a far la coda alla posta per le bollette in giorno di pensioni e  ha registrato tutto nel frattempo. Era l'ora, brava.
Ma veniamo alle tracce. La prima, America, soffre di una quasi eccessiva semplicità. Tuttavia il ritmo e le atmosfere, vicine a Scarlet's walk, rendono l'ascolto, per ora, gradevole. Dicasi lo stesso per Trouble's Lament e Wedding Day, che, tuttavia, a me piacciono meno.
Wild way è la  traccia carogna che a una come me non può far altro che commuovere, anche se è  "facile" (it is that easy?), che più di così non si può.
Nel mucchio c'è anche una canzone ritmica e scanzonata e un po' stupidina - Giant's rolling Pin- che mi ricorda lo stile di Wednesday (da Scarlet's walk) o della peggiore Goodbye Pisces  (da The Beekeper).
Poi d'un tratto in un giorno piovoso Tori si è messa ad ascoltare i Police e ha pensato: scrivere in questo modo riesce pure a me. Fu così che nacque il ritornello di Unrepentant Geraldines. Boh.
Veniamo quindi alle tracce che posso ammettere, finalmente, che mi piacciono (non credevo sarebbe successo di nuovo). Selkie: quanto tempo era che non veniva fuori dai suoi cd una canzone semplice ma con un po' di spessore! Oysters: forse la migliore in assoluto. Niente di eccezionale, ma il meglio della Amos che ho sentito da anni.
Le canzoni brutte (ma tanto brutte) ci sono, sono una certezza degli ultimi anni, non c'è da allarmarsi.
Non è riuscita a trattenersi da far fare una comparsata alla figlia Tash nella banalotta Promise. Che dire di Rose dover? anche nulla, va. La traccia extra della versione deluxe (White telephone to God) poteva tranquillamente rimanere chiusa nel cassetto del comò, secondo me nessuno di sarebbe disperato.
Se da un lato non è tornata (in modo che sarebbe risultato forse anacronistico) ai fasti di From the choirgirl hotel o Under the pink, si intravede della luce in fondo, in fondo, in fondo al tunnel. Come dice una vecchia barzelletta, speriamo non sia un camion contromano.
Il mio giudizio complessivo è questo: signorina, si intuisce il suo l'impegno, a tratti vicino a sfiorare alcune vette passate, anche con una vaga promessa di un'ulteriore evoluzione futura che oserei definire originale. Il mio giudizio è influenzato dal confronto con le precedenti nefandezze, le do un 7 di incoraggiamento. Lo prenda, però, non faccia lo scherzo di rinunciare, perché al prossimo appello potrei aver messo giudizio e rischia di dover ripeter l'anno.


Pregiudizi

Sarà perché io gli scrittori li idolatro. Mi aspetto che siano persone al di sopra della norma, con capacità e qualità sovrumane. Non parlo di integrità morale (non esser viziosi, non sperperare denaro o frequentare bordelli), mi riferisco all'integrità intellettuale. Le loro menti sono capaci di generare storie e personaggi che diventano reali e occupano uno spazio fisico nel mio mondo, riescono a non farmi dubitare mai dell'esistenza di Macondo, mi fanno vedere gli occhi tristi di Oliver Twist in orfanotrofio o mi portano a girellare per New York con Holden Caufield. Quelle menti non possono essere contenute nella scatola cranica di persone comuni e un po' grigie, come me. O meschine, o razziste. 
Per questo la scoperta di alcuni dettagli sgraditi della storia privata di qualcuno di loro mi ha fatto disamorare nei confronti delle loro opere. Vi avverto, sto per scrivere vere e proprie "oscenità". 

Il vecchietto delle anatre
Ero alle medie quando ho letto L'Anello di re Salomone, forse il lavoro da scrittore più famoso di di Konrad Lorentz. Nelle fotografie appare sempre come un affabile, canuto e panciuto vecchietto, di quelli che ispirano simpatia. In realtà era un etologo molto conosciuto nell'Austria dei suoi tempi, poi vincitore del Nobel per la medicina. In quel testo racconta, in modo molto piacevole, il metodo con cui studiava e influenzava i comportamenti degli animali. In particolare ricordo il racconto sulle anatre; sostituitosi a madre anatra, al momento della nascita degli anatroccoli, era stato riconosciuto da loro come vera figura materna e da allora era seguito ovunque da questo corteo di anatroccoli, riuscendo  così a studiarne il linguaggio e il comportamento. 
Molti anni dopo, con ancora quel ricordo tenero dell'adolescenza, ho scoperto chi fosse davvero Lorentz. Si dà il caso che la "l'Austria dei suoi tempi" fosse quella del Terzo Reich. Si dà il caso inoltre che lui non solo fosse nazista, ma perfino un teorico dell'eugenetica e esprimesse pensieri tipo questo: « Dovere dell'eugenetica, dovere dell'igiene razziale dev'essere quello di occuparsi con sollecitudine di un'eliminazione di esseri umani moralmente inferiori più severa di quella che è praticata oggi. Noi dovremmo letteralmente sostituire tutti i fattori che determinano la selezione in una vita naturale e libera" (preso in prestito da wikipedia). Questo scoperta ha sporcato talmente il mio giudizio da provare ancora un certo disgusto nel ricordo , fortunatamente sbiadito, di quella lettura. 

Il genio francese

Se per Konrad la brutta scoperta è avvenuta anni dopo aver terminato la lettura, mi è andata peggio con un grande scrittore francese. Sì. Sul serio. Parlo di Louis Ferdinand Céline. Parlo di Viaggio al termine della notte. Dire che mi stesse piacendo non è appropriato. Avevo sotto gli occhi un capolavoro della letteratura. 
Cosa può rovinare l'idilliaco rapporto che si crea tra un lettore e una storia con tutte le caratteristiche per poter diventare un punto di riferimento culturale? Ebbene, anche il caro Céline (come forse tutti, tranne me, già sapevano), medico, laureatosi con una tesi sul dottor Semmelweis (un ginecologo che per la prima volta nella storia aveva osato divulgare il fatto che i medici, udite udite, devono lavarsi le mani tra una visita e l'altra, per evitare morti per sepsi puerperale nelle pazienti - ma meglio non divagare), che aveva lavorato come medico dei poveri a Montmartre, quell'ometto che sembra consumato dalla vita, originalissimo anche linguisticamente, dalla incontestabile genialità, era anche lui un feroce antisemita. Così come Lorentz era un "teorico" dell'antisemitismo, argomento affrontato in alcuni pamphlet tra cui la Bagatelles per un massacro. Come dice Carlo Bo (trafugato nottetempo da wikipedia): « Negli anni Trenta, Céline vantava (forse più di ogni altro) un bel curriculum di antisemita, ma dopo il '40 andò oltre imboccando un razzismo scientifico, quale a suo avviso neppure i nazisti osavano sperare… Non si può non continuare a chiederci come mai uno scrittore di quella forza e di quella novità si sia lasciato trascinare da uno spirito più che polemico, predicatore di morte e di rovine. » Con vergogna ammetto di non esser riuscita a proseguire la lettura di Viaggio al termine della notte. Una delusione cocente, niente a che vedere con quella di Lorentz. 

La giornalista fiorentina

Un accenno rapido ad un'altra situazione simile. In questo caso il discorso sarebbe più profondo e il pregiudizio è influenzato dalla mia ignoranza sulla reale visione del mondo di questa scrittrice. Parlo di Oriana Fallaci. Non ho letto molto di suo, solo Lettera ad un bambino mai nato. Questo per un motivo preciso: La rabbia e l'orgoglio. Quando ho letto l'articolo sul Corriere, il 29 Settembre 2001, ancora, come tutti, frastornata dagli avvenimenti recenti, mi ha provocato rabbia e disgusto. Nell'articolo la Fallaci a partire dai tragici eventi dell'11 Settembre, racconta la sua visione sul mondo islamico, fatta di giudizi perentori e molto negativi su un'intera cultura. Ho pensato che fosse stato scritto sull'onda emotiva dei fatti e quindi carico di una eccessiva acredine che rende qualsiasi visione offuscata dall'odio e insopportabile. Ho trovato tuttavia incredibile che una giornalista e scrittrice del suo calibro, con la sua intelligenza, finisse in quel gorgo. Da allora non ho letto altro di suo.

Temo che il mio problema risieda nella incrollabile speranza, eccessivamente ingenua, che alcuni principi etici prescindano dalla contingenza, e che possano accomunarci tutti. 
Se è vero, chi più di un artista dovrebbe incarnare questo concetto? Ma ho come il dubbio non lo sia. 
Ancora mi chiedo se l'opera possa davvero essere considerata a sé. Certi giorni riesco quasi a convincermi di questo e mi vergogno dei miei pregiudizi. 
Nessuna debolezza o mostruosità di Konrad, Louis Ferdinand o Oriana dovrebbe essere in grado di annebbiare il mio giudizio sulle loro opere.  

Letting go

C'era un problema laggiù, in fondo alla strada. Lo scorgevo chiaramente, sapevo dove trovarlo, sapevo quanto fosse importante. Rimaneva lì, fisso a studiare le mie mosse, consapevole di  essere visto.
Ogni volta che facevo un passo per nascondermi dietro l'angolo lui si sporgeva, piegando il busto in avanti, per tornare nel mio campo visivo, mimando noncuranza. Cercavo di non farmi vedere il viso, perché sapevo che si sarebbe accorto dalla mia espressione di quanto quel problema influisse sull'andamento della mia giornata. Ero certa, però, che sapesse sempre dire quanto e in che modo pensassi a lui. Era un problema che non voleva essere risolto, pervicacemente intenzionato a restare. Sapevo che questa nostra corrispondenza, fatta di furtive occhiate e tentativi di nascondersi, sarebbe durata per tutto l'arco della mia vita se io, impegnata in questo inutile balletto, non mi fossi, nel frattempo, dimenticata di vivere.

domenica 18 maggio 2014

Gente come lei

"Gente come lei viene qui a portar via i nostri soldi!"
Ho alzato il capo dalla scrivania e incrociato lo sguardo severo del paziente seduto di fronte a me.
Concentrata nel tentativo di capire la situazione, avevo per un attimo perso il filo del discorso. In realtà avevo notato il tono di disprezzo e scherno, poco prima, quando si era accorto del mio accento palesemente toscano. Pensavo scherzasse, anche se, per non saper né leggere né scrivere, avevo evitato di sorridere. Il modo con cui mi guardava ora, però era inequivocabile, più delle sue parole.
Era stato inviato in consulenza urgente da un collega oncologo, era entrato nell'ambulatorio poco prima con la figlia. Appena lo avevo visto camminare avevo notato quanto grave fosse il problema.
Stavo pensando al modo migliore per escludere le cause più gravi del disturbo, quando ho sentito pronunciare quella frase.
Lì, di fronte a me avevo un signore di mezz'età, ben vestito e con un lessico piuttosto ricco, malato, forse gravemente, che mi rinfacciava, con severa lucidità, di aver preso armi e bagagli ed essermi trasferita nella sua regione per usurpare un posto di lavoro ai suoi conterranei e godermi dei soldi che non mi sarebbero dovuti spettare.
Se avessi avuto più tempo, quel lunedì, mi sarebbero venuti alla mente vari ricordi.
Due anni e mezzo fa: parlando con il mio capo di allora ho inequivocabilmente capito che per me, nel luogo dove mi ero formata e avevo lavorato per anni, non c'era posto.
Due anni fa: mi sono iscritta ad un concorso per un lavoro fuori regione e giunta in questo paese dall'aspetto non entusiasmante ho pensato che sebbene quel posto non fosse certo la mia massima aspirazione, forse l'unica cosa da fare era iniziare a ridimensionare le mie aspirazioni in base alle possibilità reali.
Un anno fa: ho ricevuto la chiamata per il lavoro e dopo un mese fatto di tormento interiore e incredulità ho trovato una casa nuova in un paese che non mi piaceva e con l'auto carica mi sono trasferita lì, conscia che in realtà avevo avuto molta più fortuna di diversi altri colleghi che non avevano ancora avuto la stessa opportunità.
Pochi giorni prima della visita; quando mi ero resa conto di quanto fosse cambiata la mia vita in poco tempo, ma anche quanto più complicata e vuota fosse diventata.
Ma non avevo tempo di soffermarmi su questi pensieri. Dovevo raccogliere informazioni, visitarlo, scrivere una relazione e proseguire con il paziente successivo, poi con quello dopo e così via.
Quindi ho abbassato lo sguardo sui fogli sparsi sul tavolo, ho proseguito la visita, consegnato i documenti e l'ho salutato.

Oliver Sacks: ovvero sull'essere antropologi su Marte

Quando si inizia la lunga salita che porta a diventare un qualche tipo di medico, ci si imbatte, in dirittura d'arrivo, su un'ulteriore cunetta. Affannati dal viaggio lungo sei anni, si deve scegliere se e quale specializzazione fare. C'è una fetta di colleghi della mia generazione che, avendo deciso di diventare neurologo, si ritrova poi, anni dopo, nei momenti di sconforto, ad offendere Oliver Sacks e diverse generazioni di suoi antenati per aver incoraggiato l'impresa.
Leggere Sacks, per chi è o vuole essere neurologo, è un gesto che fa parte della propria formazione.
I racconti di questo autore non sono articoli scientifici. Non si impara a diventare neurologo leggendolo. Si impara, semmai, a volerlo essere.
Nei suoi scritti, brevi o lunghi che siano, vengono raccontate le storie cliniche di pazienti affetti da particolari (ma talora anche comuni) malattie neurologiche. Lo stile dello scrittore non è molto diverso da quello di un romanziere profano alla medicina. La malattia è descritta nelle sue particolarità, si accenna talora alla storia della scoperta della patologia, vengono fatti rimandi a celebri neurologi che hanno contribuito a dare un nome a tali condizioni in epoche passate, ma il linguaggio non è strettamente settoriale. La scrittura è scorrevole e piacevole, in particolare nelle raccolte di racconti.
Sacks pone l'attenzione in primo luogo sul sintomo e sulla causa della  patologia ma poi si sofferma a raccontare anche come il protagonista, o, dovrei dire, il suo misterioso e affascinante cervello, sia riuscito a mettere in atto delle strategie volte a compensare il deficit. Quello che non fa, fortunatamente, è di indugiare sul dolore, mantenendo uno stile scarno, scevro da pietismi.
Lo scrittore è tuttavia piuttosto sgradito a parte della comunità scientifica che non ne apprezza la mancanza di metodo. Taluni ne disprezzano anche l'uso delle storie di pazienti, che invece che oggetto di casi clinici di interesse scientifico diventano protagonisti di storie. Insomma, Sacks è ritenuto un medico che sfrutta i suoi pazienti per farne letteratura.

Tra ciò che ho letto la mia raccolta preferita è sicuramente "L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello", ma oggi voglio parlare brevemente di un'altra, L'Antropologo su Marte. 
Si tratta di un testo che racchiude sette racconti. Quello che mi ha colpito di più è il primo, Il caso del pittore che non vedeva i colori. Si racconta  la storia di un pittore (Signor I) che in seguito ad un trauma cranico aveva selettivamente perso la capacità di percepire i colori. E questo, per un pittore, è, come dire, un bel problema. Col tempo il paziente inizia a cercare metodiche alternative per restituire colore al suo mondo pittorico senza riuscire mai a recuperare la visione colorata.
Questa breve storia è capace di aprire voragini enormi di domande, che, trattandosi di neurologia, per molta parte rimangono assolutamente non risposte.
Qual'è la natura del colore, il colore esiste o è una creazione dovuta alla visione colorata dell'uomo? E' implicito che la visione colorata sia distinta nel cervello dalla visione delle forme, ma come fa il cervello a vedere i colori? qual'è la localizzazione cerebrale della visione colorata? Le ipotesi si sono sprecate nel corso degli anni e Sacks ne esplora a grandi linee le principali. Tutto questo raccontando la storia del Signor I. che passa attraverso una fase di disgusto e rifiuto per la sua nuova condizione a quella di una dolorosa e rassegnata accettazione.
Quando ho letto questo libro ero sul punto di iniziare un lavoro di ricerca volto a capire come identificare e quantificare il danno causato da alcuni insulti (nel mio caso ischemici) cerebrali, che colpiscono le regioni posteriori dell'encefalo, e che possono determinare la perdita selettiva della capacità di riconoscere volti, luoghi, tipi diversi di stimoli visivi e, appunto, i colori. Stavo valutando pazienti con tale disturbo e appassionandomi alla letteratura e ho visitato pazienti con disturbi simili a quelli del Signor I.
In quel preciso momento Sacks mi stava raccontando quello che avevo sognato potesse essere il mio lavoro e che in qualche modo lo stava diventando. Mi stava dicendo che il cervello è il mezzo con cui vediamo il mondo e quindi studiandolo stavo facendo la cosa giusta. E questo nonostante non ci sia alcuna possibilità di capire tutto e in modo definitivo. Nonostante ci si possa passar la vita tentando.
La definizione di Antropologo su Marte è quella che una paziente autistca dà di se stessa, della sua difficoltà nel capire il mondo. Nei confronti della comprensione dei meandri del proprio cervello l'uomo ha gli stessi limiti, le stesse difficoltà, che avrebbe un marziano sulla terra, o, appunto, un antropologo su Marte. Oliver Sacks ce lo racconta senza rigore scientifico, da scrittore, clinico  appassionato e osservatore, restituendo con i suoi racconti il senso di misteriosa fascinazione di una mente incapace di capire pienamente se stessa ma esterrefatta di fronte alla propria complessità.


sabato 17 maggio 2014

Ci sono libri per riempire tante vite nella mia libreria, ci sono migliaia di film di cui ignoro ancora  l'esistenza,  ci sono pensieri che non son certa di saper tradurre in frasi.
Questo è quello che vorrebbe essere questa pagina. Solo un ennesimo blog perso nella vastità della rete.