lunedì 21 dicembre 2015

La mia Arsnoctis' reading Challenge



Ormai diversi mesi fa ho visto il video postato su YouTube da Arsnoctis, sul suo canale Castelli di carta. Io non ho mai partecipato prima a una sfida di lettura, questa mi è sembrata subito interessante e ben costruita, così ho pensato di provarci. Arsnoctis (che oltre ad un canale ha anche un blog e un tmblr) è veramente brava nel raccontare le sue letture (fumetti e libri di vario genere), capace di carpire l'attenzione senza annoiare esprimendo opinioni affatto scontate.

La sfida di lettura è questa:

E questi sono i link al CANALE YOUTUBE, al BLOG e al GRUPPO GOODREADS
Oggi vi voglio raccontare, brevemente, le mie letture relative al primo livello:

Un libro o un fumetto da cui è già stato tratto un film

Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson  una raccolta di racconti o per meglio dire di frammenti, che fotografano la vita di diversi abitanti di questa tranquilla cittadina statunitense. Con la sua semplicità e leggerezza,questa raccolta è in grado di raggiungere momenti di grande lirismo e intensità, in modo del tutto "naturale". 
Questo piccolo capolavoro incarna l'esempio di ciò che amo di certa letteratura e sopratutto di alcune raccolte di racconti; accenna senza spiegare, introduce con poche parole personaggi e ambienti e finisce con costruire le storie grazie al rincorrersi degli eventi nei diversi racconti. Osservi da dietro una porta socchiusa la vita del paese, te ne senti parte e ti vedi a fianco del principale narratore, George, alter ego dello stesso Anderson. Libro troppo poco conosciuto, da cui è stata tratta una versione per la TV nel 1973 (che non ho visto) e una per il cinema del 2008 (che non ho visto e non so nemmeno se sia mai stata distribuita da noi). 

Un fumetto che sia un volume unico

Lo Scultore di Scott McCloud  Devo ammettere che faccio parte di quella schiera di persone che ha iniziato a leggere fumetti solo di recente, scoprendo un mondo che sembra infinito e con delle vette letterarie che hanno poco da invidiare ad alcuni dei romanzi più belli. Lo Scultore è stata una di queste vette, sicuramente rimarrà a lungo impresso nella mia memoria di lettrice, per la sua incredibile profondità, la capacità di creare una vicenda avvincente riflettendo su questioni di "nessun" conto come lo scopo della vita, la natura dell'arte e il suo ruolo nel mondo, l'esplorazione delle relazioni umane, tutto raccontato in modo semplice ma tutt'altro che banale.  
Ne ha parlato meglio di me la stessa Arsnoctis in QUESTO VIDEO

Un libro o un fumetto di un autore che non hai mai affrontato

Le sorelle Soffici di Pierpaolo Vettori Era da tanto che volevo leggere questo libro e dopo qualche mese di ricerca sono finalmente riuscita a trovare l'edizione cartacea al Salone di Torino. La storia è quella delle due sorelle del titolo (Veronica e Cecilia), figlie di un industriale titolare della fabbrica della marmellata Soffici ed è ambientata negli anni novanta. Le sorelle sono ragazze piuttosto "speciali" perché affette da disturbi psichici (o ritardo mentale). Il lettore conosce la vicenda attraverso il punto di vista di Veronica, che racconta nel suo diario le vicende che coinvolgono la matrigna, il disgustoso faccendiere Anton, lo psichiatra Dr Tauber, il padre coinvolto nelle faccende di Tagentopoli, sempre con un tono sospeso tra realtà e fantasia, con uno sguardo innocente e ingenuo sugli eventi, come se ci trovassimo limite del bosco di una fiaba. Un libro che ha soddisfatto le mie aspettative, una lettura veloce ma non frivola, che consiglio a tutti.

BONUS TRACK:
Un fumetto di un autore che non ho mai affrontato: 

Blankets di Craig Thompson già, non lo avevo ancora letto (ma ce ne sono molti altri più "clamorosi" che non ho letto). L'ho letto velocemente e sono rimasta affascinata e intenerita dalla storia e dalla delicatezza con cui Thompson racconta i sentimenti e i gesti che uniscono e poi dividono il protagonista (Craig stesso) e Raina, il suo primo amore. Ma questo fumetto racconta anche altro, parla di scelte, di sentimento religioso inculcato e poi rifiutato, di grossi travagli interiori e accesa passione, della crescita di Craig e del modo in cui, col tempo, si costruisce la sua personalità da adulto.




Un libro/fumetto scelto per te da un amico/a
anche in questo caso devo citarne due, ecco il primo:

Shada di Douglas Adams questo più che consigliato mi è proprio stato regalato da un'amica, fan come (e più di) me di Adams. Si tratta di un episodio di Doctor Who pensato per una puntata radiofonica che è stato ideato e iniziato da Adams e terminato da Gareth Roberts. Una storia velocissima e avvincente, in cui il Dottore si trova insieme all'assistente Ramona e il robot canino K-9 a cercar di fermare il progetto di controllo mentale universale di Skagra. Grandi pregi del testo: la velocità e facilità di lettura, l'umorismo Adamsiano, lo stile Adamsiano. Aspetti un po' meno positivi: lo stile è riconoscibilissimo tanto che potrebbe essere scambiato per  nuovo episodio della trilogia in 5 volumi.
Però Adams è uno che scrive cose come:
"Non mi sta seguendo, vero?" le chiese lui. "No" 
Il professore annuì. "Bene, mi consideri solo come un paradosso dentro un'anomalia e continui a bersi il suo tè

quindi sempre e comunque viva Douglas Adams!


E il secondo


L'invenzione della madre di Marco Peano: questo libro in realtà mi è stato consigliato da mia mamma. E' il racconto della vita quotidiana di Matteo con sua mamma dal momento della scoperta della grave malattia di lei. Racconta sia piccoli eventi, cose che colpiscono nel segno per quanto sono, non tanto realistiche, ma davvero reali e commoventi, ma anche un grande dolore che pervade e sconvolge tutti gli aspetti della esistenza del figlio. Mi ha lasciata molte volte senza parole, come scrivevo su Goodreads, "smarrita". 






Un libro/fumetto biografico:


La morte del padre di Karl Ove Knausgård   Questo libro è il testo autobiografico per eccellenza, dato che la vita del (anche piuttosto giovane) autore è sviscerata in sei (dico sei) volumi. Un libro per cui mi sono trovata a discutere con due librai da cui ero andata a prendere il secondo volume (il giorno stesso in cui avevo finito il primo), loro erano increduli che potesse essere tanto affascinante come dicevo e che fosse possibile leggerlo in meno di un'era geologica (situazione surreale, visto che appunto loro il libro me lo stavano vendendo). Io ero e sono convinta delle mie affermazioni (e certo non sono la sola); in modo lento e progressivo questo racconto si insinua nella tua giornata e lo spazio che decidi di dedicargli è, se possibile, sempre maggiore. La narrazione procede con lunghe digressioni, interruzioni, alcuni momenti si dilatano in modo importante senza tuttavia raccontare episodi decisivi della vita dell'autore. i tempi e i modi della narrazione sono se non originali molto personali e estremamente coinvolgenti. Un libro che almeno nella traduzione italiana che ho letto io, scorre via leggero, e ti lascia curioso su cosa ci sia nei volumi successivi ma sopratutto su come Karl Ove abbia deciso di raccontarcelo.   

Un libro con meno di 200 pagine:


Il posto di Annie Ernaux Anche questo libro viene dal Salone del libro di Torino, è stato Marco Peano (l'autore de L'invenzione della madre) a raccomandarne la lettura, parlando di testi che affrontano in modo intenso vicende intime familiari. Questo testo, molto breve, è una gemma; la Ernaux racconta il suo rapporto con i genitori e in particolare con il padre.  I due sono divisi da una distanza culturale siderale, lui non solo non ha ricevuto una educazione scolastica, ma non perde occasione per beffeggiare chi usi un linguaggio più colto. La figlia racconta in modo scarno, diretto, semplice, il suo progressivo allontanamento da quel mondo, con il quale sente di avere ben poco in comune. Ne deriva un dolore mai esposto né teatralmente palesato, ma sempre presente, in sottofondo. Così come non è dichiarata, ma pungente, la tenerezza che provocano certi momenti della narrazione, come quando la Ernaux trova nel portafoglio del padre ormai deceduto, insieme ad una vecchia fotografia, il ritaglio del giornale dove è riportata la graduatoria del concorso di assunzione delle figlia (dove si era classificata tra i primi posti). Un racconti di affetti e di mancanza degli stessi, senza sensi di colpa ma esposto in modo sincero e scevro da sentimentalismi. 

Un (altro) libro con meno di 200 pagine


il Verificazionista di Donald Antrim Il protagonista della storia è Tom, uno psichiatra, che organizza un incontro con i colleghi per cena in una tavola calda che fa le frittelle dolci. Lì tra verbose e complesse (e a tratti assurde) disquisizioni su coscienza, interpretazione della realtà, psiche etc. la storia prende una piega surreale in seguito ad un evento inaspettato (e inaspettabile) che divide il racconto a metà, da lì in poi il lettore è chiamato ad una sospensione del giudizio e si trova a osservare il mondo da un punto di vista, direi, "particolare", con una conclusione che rimette le cose un po' in fila, senza buttare tutto alle ortiche. A quanto ho capito si tratta di un'opera minore di Antrim, voce originale della letteratura americana postmoderna; io non credo di aver apprezzato appieno il racconto, o di averne ben compreso le sfumature e le intenzioni dell'autore, anche se mi è piaciuto lo sguardo irriverente e scanzonato sulla psichiatria accademica. Sicuramente un autore che voglio approfondire.  

Un Classico che non avevi ancora mai letto:
I Miserabili di Victor Hugo

Oh me, oh Vita! Chi sono io per dire qualcosa, anche poche parole, su I Miserabili? 
Se si cerca un libro che affronti tematiche morali, che mostri la piccolezza e la grandezza, che racconti di fame e sopravvivenza, che parli di onore e di onestà, che spieghi cosa sia successo a Waterloo nel 1815, cosa sia stata la Restaurazione, cosa sia il (primo) socialismo, e financo come siano state fatte le fogne di Parigi, si deve leggere i Miserabili. Non mi ritengo una lettrice molto veloce, ma questo libro ha riempito ogni anche breve ritaglio di tempo libero di due mesi d'autunno, senza lasciarmi mai. Leggere una scrittura così elaborata nella costruzione, ma che arriva precisa allo scopo, è un piacere assoluto. Un regalo che una volta nella vita bisogna farsi. Ecco. 














lunedì 18 maggio 2015

Sullo scrivere il proprio elogio funebre e sulla sanità mentale (che non c'è)

Vivere sola in un bi-locale in un paese di profonda provincia nella Pianura Padana, con un gatto nero di peluche, a cui talvolta racconto i miei travagli interiori (il gatto sembra in media più interessato dell'alce proveniente da un negozietto di giocatoli dell'aeroporto di Stoccolma) non fa bene alla mia sanità mentale. Per fare un esempio, la settimana scorsa o quella prima -il tempo si comprime e si dilata come il soffietto della fisarmonica nella sua monotonia- ho scritto il mio elogio funebre. Non che stia pensando a gesti estremi, o chissà cosa. Stavo solo copiando un'idea di Chuck Lorre, quello che sceneggia/produce serie Tv come the Big Bang Theory (per dirne una). Alla fine di ogni puntata di questa serie, per pochi secondi, compare una schermata scritta fitta che contiene pensieri, racconti, sketch di Chuck, che si può leggere solo facendo un rapido fermo immagine.  In una delle ultime puntate c'era appunto, il suo ideale elogio funebre, auto-prodotto. E io ho pensato, perché no?
Non vi tedio con questa cosa (che in realtà ha un intento assolutamente ironico, ma non mi viene in mente niente di più triste di un tentativo umoristico che non faccia ridere, quindi ve lo evito), però mi ha indotto ad una riflessione. Tra il leggere una cosa del genere e il pensare di voler scrivere davvero il proprio elogio funebre, c'è un passaggio mentale misterioso e  un po' inquietante che mi spinge a dubitare della mia sanità mentale.
Volendo poi (ma fosse sarebbe meglio non volerlo) addentrarsi un po' nel merito del pensiero espresso in quel breve brano si potrebbe riassumere così: ciao gente, è stato bello conoscervi (ma anche no) e mi raccomando non prendete mai esempio da me per le vostre scelte personali.
Cosa che, come dire, acuisce un po' il senso in inquietudine di cui sopra.
Quelle poche persone che hanno avuto "l'onere" di conoscermi sanno che non sono certo una persona che non si lamenta mai o che si possa definire soddisfatta di sé.
Pensare tuttavia che il messaggio conclusivo del mio passaggio terreno possa essere questo, in qualche modo, non me lo sarei aspettata nemmeno io da me stessa.
E' vero che quando si scrive, o ci si prova, vengono fuori i concetti che generalmente non sono "oggetto" del vivere. Ci si sposta, si pensa, si agisce, ma difficilmente ci prendiamo il tempo per organizzare le idee in delle preposizioni definite.
Per questo scrivere aiuta. Può aiutare a costruire o a distruggere, ma di certo rende i pensieri concetto, e ci obbliga a trovare le parole più adatte per farlo.
Questo può voler dire solo che ad oggi, se mi si chiedesse di riassumere chi sono, o che opinione ho di me stessa, la conclusione a cui arriverei è qualcosa del tipo: "possa la mia vita esservi di ispirazione per scegliere di vivere in modo completamente diverso da me".  Ci tengo a dire che comunque questo è meglio di niente; c'è del senso. E' un senso sbagliato, ma c'è (o come diceva Quelo di Guzzanti, la risposta è dentro di te, ma è sbagliata).
Immagino quello che potreste pensare, che questo dovrebbe spronarmi a cambiare... ma, no, non lo sarà, lo so. E non perché mi piaccia crogiolarmi nell'auto-commiserazione (ma anche un po' sì) piuttosto perché mi conosco, non succederà. Questo significa che sono infelice? Forse, a volte, sporadicamente... piuttosto spesso. Ma in fin dei conti, chi se ne importa? Importanti sono le cose semplici: avere un bilocale, un lavoro, un gatto a cui parlare, un po' immobile forse, ma un buon ascoltatore (anche perché pure la cara Short Term Dory col suo problemino mnesico non regge il paragone con lui).
Nel frattempo mi è venuto in mente qualcosa di più triste della battuta che non fa ridere. Sono stata al Salone del Libro di Torino e ho assistito ad un incontro con Bjorn Larsson per la presentazione dell'ultimo suo libro pubblicato da Iperborea. Al temine un tipo dell'audience ha preso la parola e ha chiesto a Bjorn se si ricordasse di lui, e lo scrittore visibilmente imbarazzato ha ammesso di no e ha chiosato che gli capita spesso che la gente pretenda di esser riconosciuta ma dato il numero di persone che incrocia giornalmente, non può ricordare tutti. Ecco questo l'ho trovato molto triste,  per la piccola umiliazione che Bjorn è stato costretto a infliggere all'uomo, perché è successo pubblicamente, per lo sguardo deluso del tizio che sembrava tenerci a quella magari fugace e remota conoscenza con l'autore e doveva essere proprio convinto che quell'incontro fosse stato memorabile.
Ecco, si sbagliava.

domenica 4 gennaio 2015

Lo sconfinato e misterioso mondo dei Grahic Novels

Negli ultimi mesi ho fatto una scoperta sconcertante: esistono cose chiamate graphic novels. Ma non solo, ho scoperto che ne esistono di incredibilmente belli, intelligenti, malinconici e buffi. Insomma, c'è un mondo enorme a me completamente sconosciuto che ho voglia di esplorare. Vi lascio quindi un breve commento su alcune letti di recente, cercando di selezionare quelle forse meno conosciuti o magari piuttosto famosi ma che considero dei capolavori che ritengo dovrebbero essere ancora più diffuse. Sia chiaro, sono lungi da essere esperta in materia, sono solo una appassionata ignorante che si è appena affacciata su un mondo così affascinante; c'è da perdersi. Una osservazione ulteriore: mi son resa conto che le cose migliori tra quelle che ho letto, raccontano situazioni a dir poco tristi se non tragiche. Verrebbe da dire: la meraviglia sull'orlo dell'abisso. E un'ultima cosa: le librerie che conosco mettono le graphic novel in ordine di editore, rendendo  l'impresa del trovare quella lì che cerchi proprio ardua. Verrebbe da dire: ma perchè???


Probably Nothing: a diary of not your average nine months di Matilda Tristram

Matilda ci racconta uno stralcio della sua vita: alla 17esima settimana di gestazione scopre di avere un tumore all'intestino. Inizia un calvario: nelle 97 pagine di questo lavoro Matilda ci racconta dilemma su come procedere (abortire o no, fare o meno la chemioterapia), le conseguenze fisiche e psichiche delle decisioni prese e delle terapie sopportate. La Tristram dimostra di non temere di rompere qualche tabù, raccontando come da malata abbia momenti di egoismo dettati dalla propria disperazione o come capti e odi profondamente ogni gesto e commento ipocrita o buonista della gente che la circonda. Un marito premuroso, una rete amicale e familiare molto forte e il suo senso dell'umorismo hanno dato come frutto oltre allo stupendo James anche questo bel  graphic novel, sincero talora duro, altre volte struggente e spesso anche divertente. Attenzione alla versione ebook: almeno sul mio dispositivo le vignette sono piuttosto piccole e talora di non facile lettura.





Marbles: Mania, Depression, Michelangelo, and Me di Ellen Forney


In questa frizzante "novella grafica" (?) Ellen racconta le sue vicende in seguito alla diagnosi di Depressione Bipolare e attraverso il percorso terapeutico (farmacologico e psicologico) per ottenere un, seppure sempre precario, compenso del proprio stato psichico. Si passa dalla negazione al tentativo con i primi farmaci, i conseguenti effetti collaterali e quindi le modifiche, gli effetti delle modifiche e quindi i nuovi effetti collaterali e nuove modifiche, procedendo due passi avanti e uno indietro, verso la stabilità. Sono descritti con lucidità gli stati maniacali o ipomaniacali e con spietatezza l'abulia e l'apatia delle fasi depressive, l'entusiasmo per ogni miglioramento, fino al nuovo passaggio all'altro fronte. Credo che poche cose siano altrettanto difficili dell'esporre certe enormi fragilità psichiche, valutando anche lo stigma che le malattie psichiatriche si portano dietro. Ellen non fa giri di parole e con chiarezza parla di ciò che molti nascondono al mondo (che già è complicato uscirne fuori senza che il mondo se ne stia lì a guardare e giudicare). 



Calling Dr. Laura: a graphic memoir di Nicole J. Georges



Dr. Laura è un programma radiofonico che la protagonista è solita ascoltare. Si tratta per lo più di casalinghe disperate che chiamano questa presunta dottoressa per chiedere consiglio riguardo scelte importanti o chiedendo giudizio su comportamenti da tenere in fasi critiche della vita. Ed è  proprio questo programma che Nicole chiamerà per chiedere consiglio in un momento di crisi dopo aver saputo dalla sorella che il padre spacciato dalla madre per morto poco dopo la sua nascita, in realtà non lo è affatto. Nicole ci racconta questo importante spaccato intrecciandolo con i travagli derivati da altri aspetti della vita privata (la relazione complicata con la fidanzata con cui ha creato un gruppo musicale). Ne esce un racconto a tratti intenso con un finale molto commovente.    






Rughe di Paco Roca



Unaodei graphic novels più belle che abbia letto, mi ha suscitato un amore immenso e immediato. E' il (breve) racconto della vicenda di Emilio in seguito alla diagnosi di Malattia di Alzheimer in fase iniziale e dal momento della sua istituzionalizzazione in una casa di cura. La disgregazione della mente, lo straniamento legato all'esser trasferito di colpo in un ambiente completamente nuovo, le relazioni createsi nella casa di cura, tutto espresso in modo delicato e ricco di spunti ironici con tutte le sfumature dell'animo di Emilio; malinconia, rabbia, tenerezza. Nelle malattie come l'Alzheimer si fa esperienza di una continua perdita (memoria, privacy, dignità, affetto famigliare) ma in questo Rughe si racconta in qualche modo anche l'attaccamento ad un passato che è stato determinante nel formare quello che siamo stati e l'incapacità di staccarsi (almeno nelle fasi iniziali) dal proprio vissuto. Un capolavoro. 



Alice nel mondo reale di Isabel Franc e Susanna Martìn


Altro graphic novel che parla di un'esperienza drammatica con tocco ironico.  E' la vicenda di  Alice, dalla la scoperta del tumore al seno, l'intervento e il ritorno alla vita. Racconta in realtà sopratutto quest'ultima parte, la fatica del ritrovare una propria nuova esistenza dopo la malattia, l'importanza dell'amicizia, lo scontro con il pregiudizio. Molto simile in questo a Probably nothing e a Marbles (lo so sembra una forma di masochismo da parte mia questo avvicendarsi di letture con simili sfumature drammatiche, e, infatti, credo che lo sia). Tutti questi sono racconti che fanno del loro camminare in bilico tra il comico e il tragico il loro punto di forza, e riescono ad arrivare in modo spesso eccellente all'altro capo del filo. 








Maus di Art Spiegelman


Chi sono io per parlare di Maus? Giusto due parole: Spiegelman racconta l'esperienza del padre e della madre  (due ebrei polacchi) dalla presa di campo del nazismo alla detenzione ad Auschwitz e lo fa in modo onesto, poetico, usando l'espediente del mettere volto di animale alle persone per rendere più "leggero" il suo fumetto senza attutire la crudezza del racconto. Non ironizza sul tema, non fa sconti alla brutalità degli eventi, riuscendo ad essere credibile in modo così toccante da commuovere profondamente; "Maus è una storia che non ti lascia, nemmeno dopo che l'hai finita", dice Umberto Eco. E' vero,  immagino lo conosciate tutti, ma se non lo conoscete o non lo avete ancora fatto, vi consiglio di leggerlo, appena potete. E' un favore fatto al vostro senso civico, alla vostra umanità. 



Fermo di Sualzo


Sebastiano viene chiamato per fare il servizio civile.  Viene mandato a Bibbiena, una ridente cittadina dell'aretino. Lì pensava di poter lavorare in biblioteca a non far nulla, invece lo mettono a lavorare con le persone con disagio psichico. Difficoltà iniziali e poi, come ci si aspetta fin dall'inizio, il lavoro gli cambia la vita, spingendolo oltre l'adolescenza verso un mondo fatto di responsabilità importanti e di presa in carico delle cose della vita.  Deciderà il suo futuro in modo definitivo, aiutandolo a trovare il suo posto nel mondo. 
Un bel racconto, forse non incisivo come gli altri sopracitati, a cui non manca tuttavia una discreta dose di poesia. 






Hyperbole and a Half: Unfortunate Situations, Flawed Coping Mechanisms, Mayhem, and Other Things That Happened di Allie Brosh


Aprendo questo fumetto ci accorgiamo subito di esser di fronte ad un caso molto particolare. Allie Brosh ci racconta parte della sua storia personale; i suoi disegni hanno un aspetto assolutamente essenziale, direi elementare; le vicende riguardano episodi dell'infanzia, dell'adolescenza e raccontano in particolare anche la lotta della Brosh con la depressione. Cosa c'è di così particolare quindi in questo Hyperbole? L'ironia, un'ironia acuta e surreale. il riuscire a esprimere con un solo fumetto concetti profondi. La capacità di catturare l'attenzione con immagini dai disegni assurdi, quasi astratti. La dolcezza della protagonista e il modo delicato con cui affronta le vicende sfortunate del titolo.  Tutto questo fanno di questo Graphic Novel una cosa unica nel suo genere. Non necessariamente superiore, ma unica. Ecco le parole della quarta di copertina scritte dall'autrice stessa: "This is a book I wrote. Because I wrote it, I had to figure out what to put on the back cover to explain what it is. I tried to write a long, third-person summary that would imply how great the book is and also sound vaguely authoritative--like maybe someone who isn’t me wrote it--but I soon discovered that I’m not sneaky enough to pull it off convincingly. So I decided to just make a list of things that are in the book:
Pictures
Words
Stories about things that happened to me
Stories about things that happened to other people because of me
Eight billion dollars*
Stories about dogs
The secret to eternal happiness*

*These are lies. Perhaps I have underestimated my sneakiness!
 "

Vi risparmio al momento uno sproloquio su Gipi, autore di cui sto cercando di leggere tutto e che amo profondamente e Zerocalcare, che non finisce di stupirmi (il suo ultimo, Dimentica il mio nome, è tra le cose migliori che abbia letto nel 2014). Se non mi blocca il ritegno penso di fare un post a parte per questi due, cercando di mantenerlo sufficientemente superficiale e generico, un po' come questo insomma. 

Prossimamente intendo leggere (e ho grandi aspettitive):

 
   
                                                                             




sabato 20 settembre 2014

Can't we talk about something more pleasant? di Roz Chast

Ho scoperto solo ieri che Roz Chast è stata nominata nella longlist dei libri in lizza per il National Book Award nella categoria Non-Fiction. Sicuramente questo è il mio preferito in lizza (se si tralascia il fatto che è l'unico che abbia letto). La prima volta che ho incontrato Roz Chast è stato tra le pagine (digitali) del New Yorker (ignorate la mia psicopatologia che mi fa leggere il New Yorker per sentirmi meno incastrata in un pesino di provincia). E' una fumettista, indiscutibilmente molto brava, che fa non tanto del tratto del disegno (che è però molto originale, semplice, un po' alla Peanuts)  ma della ironia e delicatezza dei temi e del modo di trattarli il suo punto di forza.
Roz Chast in questa graphic novel racconta il rapporto con i suoi anziani genitori. Il titolo si riferisce a ciò le diceva la madre quando nelle discussioni veniva fuori qualche riflessione sul futuro, sulla malattia e peggio ancora sulla morte: "Si può parlare di qualcosa di più piacevole?"   Mettendo in atto una pervicace negazione di una realtà che si stava tuttavia realizzando proprio sotto gli occhi della figlia Roz, con l'invecchiamento e di conseguenza la decadenza fisica, la malattia dei genitori, che si trova poi a dover affrontare con grande disagio e in solitudine. Il libro però non è triste, è dotato della grande dote di raggiungere quelle zone di ombra e vulnerabili del lettore in modo ironico e senza patetismi, lasciando che a commuovere sia il concetto celato più che la parola scritta. Per quel che mi riguarda Roz ha fatto centro in modo diretto e direi chirurgico. Ha puntato a una zona debole, non poi così nascosta, l'ha smascherata,  creando una connessione con le mie paure e preoccupazioni  riuscendo però a farle risultare non sgradevoli grazie a una buona dose di leggerezza. Paure e preoccupazioni che sono sicuramente parte, prima o poi, della vita di tutti.
Mi risulta che ancora non sia stato tradotto, un vero peccato.

Smashed di James Ponsoldt

Ammetto di aver trovato il film  nell'insensata ricerca di un intrattenimento che mi distraesse almeno un po' da quella cosa indescrivibile che è Breaking Bad (ho visto l'ultimo episodio da poco non mi sento ancora in grado di parlarne). Ho trovato per caso questo filmetto indipendente e ho scoperto che nel cast c'è Aaron Paul che recita la parte di un Jesse Pinkman alcolista (di nome Charlie); non ho saputo resistere.
La storia è molto semplice: Kate a Charlie sono due giovani coniugi alcolisti. Vivono un una realtà dove Kate affianca al lavoro di maestra elementare delle ubriacature serali a cadenza quotidiana e un continuo stato post-sbornia diurno. E' il loro modo di vivere, di divertirsi, di trovare una connessione tra di loro. Un giorno però Kate si accorge che questo stile di vita la sta portando verso un limite che non si sente di voler oltrepassare. Decide quindi di affidarsi a un gruppo Alcolisti Anonimi e questo comporta una crisi nelle dinamica del rapporto con il marito. Kate non solo è vittima di una dipendenza, ma anche di un ambiente familiare in cui la scelta ritenuta dallo spettatore come giusta, tornare sobria, viene vissuta come una forma di snobismo; smettere di bere diventa il voler essere diversi dalle persone con cui condividi l'esistenza, volersi elevare al di sopra di loro, giudicandone il comportamento. Per questo la protagonista deve affrontare una battaglia su due fronti, soffrendo in solitudine le proprie scelte e decidendo di perseguire quest via anche a costo di subirne tutte le conseguenze. Questa riflessione rende il film più profondo di altri sullo stesso genere, e trasforma un piccolo lavoro indipendente in un prodotto originale. La scrittura è essenziale, leggera e fa da contraltare ad una tematica molto impegnativa, producendo un lavoro condotto in modo intelligente. Spicca l'interpretazione di Mary Elisabeth Winstead, attrice che devo ammettere di aver ignorato fino ad ora. Consiglio di dare una chance a questa breve pellicola, ben scritta e altrettanto ben diretta, con un finale commovente e realistico, cosa piuttosto rara, tra l'altro.

mercoledì 11 giugno 2014

Il "mio" cinema danese

Molti anni fa, grazie ad una amica internettiana con cui, purtroppo, ho perso ogni contatto, ho iniziato a conoscere alcune opere di vari registi accomunati dall'essere di nazionalità danese. Pellicole molto diverse tra loro, ma forse, a guardar bene, accomunati da certe atmosfere o scelte stilistiche. La cosa mi ha preso un po' la mano nel corso degli anni... Lungi da voler e poter fare un'analisi specifica di una intera ed eterogenea filmografia, mi sono riproposta stasera (in una nottata di reperibilità che si prospetta, per buona parte, insonne) di elencare e suggerire ad un fantomatico lettore del blog, alcuni dei film che ho preferito. NB: salto a piè pari tutto Lars von Trier, non ho la forza né la capacità di infilarmi in quel mondo controverso che è la  sua filmografia, il mio intento è quello di citare dei film che immagino siano molto meno conosciuti.

Le mele di Adamo di Anders Thomas Jensen del 2005

Parto subito da uno dei miei preferiti in assoluto.
E' la storia di un ex-detenuto neonazista, Adam (il mirabolante Ulrich Thomsen) che viene affidato per il proprio recupero sociale a un pastore protestante, Padre Ivan (Mad Mikkelsen, Hannibal quando ancora non se lo filava nessuno). Padre Ivan è dotato di un inverosimile ottimismo. Crede fermamente nel bene ed è convinto di poter rieducare Adam. Come primo passo lo induce a crearsi un primo obbiettivo da raggiungere e Adam decide che vuol fare una torta di mele (le mele di Adamo del titolo). Ne succedono di tutti i colori: arrivano i corvi, poi un fulmine cade sull'albero, tutto congiura contro la torta di mele, ma Padre Ivan, contro ogni evidenza, insiste per far raggiungere ad Adam l'obiettivo prefissato. Detto così sembra un film normale, anzi noioso. Ma non lo è. Oh, se non lo è!
Innanzi tutto l'ottimismo di Padre Ivan si manifesta con una sistematica negazione del reale. Il suo sguardo è deformato. Suo figlio è gravemente disabile, ma lui non sembra esser consapevole, le altre persone che vivono con loro commettono atti malvagi, Adam gli punta una pistola alla testa, ma lui agisce come se tutto ciò non accadesse. Il male non lo vede nemmeno quando gli cade sotto gli occhi, anzi, finisce per giustificare le azioni orribili delle persone che lo circondano, senza battere ciglio. Il film, in un crescendo di episodi surreali, finisce in modo inverosimile ma donando momenti di vero umorismo nero (di quelli nei quali, a pensarci bene ti rendi conto che da ridere non c'era proprio niente, ma se lo riguardi una seconda volta, ne ridi di nuovo). Oltre a questo Le mele di Adamo offre lo spunto per una riflessione semiseria su cosa sia il bene e il male, su quanto conti l'occhio di chi guarda nel giudicare le azioni e su come le cose finiscano spesso in modo molto diverso rispetto a quello che ti aspetti, a prescindere da quanto ti sforzi, per esempio, per buttare tutta la tua nel secchio dei rifiuti. Questa scena è un esempio di quello che sto tentando di dire (la scena è un po' forte, vi avverto).


Non desiderare la donna d'altri di Susanne Bier del 2004

Questo film il cui titolo originale è semplicemente Brodre (Fratelli), è stato oggetto di una riedizione USA del 2009 (Brothers) di Jim Sheridan (ma che è successo al Jim Sheridan di Il mio piede sinistro e Nel nome del padre?)  che ha il difetto di avere come protagonista Tobey McGuire invece del meraviglioso Ulrich Thomsen. Per il resto è quasi identico e assolutamente superfluo. Esisteva già questa bella pellicola della Bier che raccontava la storia di un soldato fatto prigioniero in Afghanistan e ritenuto deceduto che invece viene liberato dopo diverso tempo e torna in patria molto cambiato e inizia a dubitare del rapporto che il fratello Jannik ha creato in sua assenza con sua moglie.  Delle interpretazioni potenti e tormentate, una storia che tiene incollato lo spettatore, forse non originalissima (o magari lo sembra perché  è stata ripresa in seguito in vari modi), ma ben diretta e molto commovente. (Suvvia il film di Sheridan se lo concedano tuttalpiù  le fan di Jake Gyllenhaal, che poi è il motivo per cui l'ho guardato io). 



Dopo il matrimonio di Susanne Bier del 2006

Rieccoci alla Bier, regista amata in Europa e non solo (ha vinto l'oscar nel 2011 e questo film era stato nominato come film straniero nel 2007) che suole parlare nelle sue opere di dinamiche familiari ed etica della vita quotidiana (mmm, lo so, sono frasi fatte, ma a volte aiutano). Questo film, secondo me, è il suo migliore. Racconta la storia di un uomo impegnato in missioni umanitarie (il fascinoso Mads Mikkelsen - lo so che potrebbe sembrare che in Danimarca ci siano solo due attori famosi e bravi, ma invece son sicura di averne contati 4 o perfino 5), che riceve un invito da parte del marito di una sua ex a tornare in Danimarca per ricevere una sostanziosa donazione benefica. Dietro questo gesto, però si celano ben altri intenti che diventano palesi il giorno del matrimonio della figlia di questo ricco e apparentemente generoso mecenate e che mettono il personaggio di Mikklesen di fronte verità scomode e a scelte decisive e dolorose. Si tratta di un film dalla storia molto realistica e struggente, diretto magistralmente da una Bier che collabora con il Jensen delle mele di Adamo per scrivere una sceneggiatura originale con buon ritmo e dialoghi azzeccati, mai troppo drammatici e  che analizza le relazioni umane fin alla radice (il rapporto padre-figlia, in particolare, è reso con molto realismo e delicatezza).  
Una nota di merito aggiuntiva va alla scelta di inserire nella colonna sonora Vaka (o untitled1) dell'album ( ) dei Sigur Rós (una meraviglia). 
[Non ho trovato una scena del film con Vaka che non contenesse spoiler, peccato, metto il trailer]. 


Festen di Thomas Vintemberg del 1998

Quì vado sul banale, lo cito solo en passant perché credo che lo conoscano tutti. Film Dogma #1 del movimento Dogma 95, di cui Vintemberg è stato uno dei fondatori con von Trier (entrambi poi si si sono discostati fino a terminarlo nel 2005) che, come insegna Corrado Guzzanti in una imitazione di Ghezzi, consisteva nel "il divieto per le persone alte 1.95 m di entrare al cinema per non oscurare la visuale alle persone sedute dietro di loro".
Ecco, nel caso di Festen, avere la visione ofscurata da uno alto 1.95 sarebbe un peccato, però potrebbe salvare lo stomaco di qualche spettatore. Una delle caratteristiche "dogmatiche" del film è infatti la ripresa fatta solo con telecamera a mano (in epoca molto precedente a theBlair Witch Project, REC e compagnia bella), con sobbalzi degni di montagne russe e concomitante cinetosi. Però dura poco. E' la breve e drammatica storia di una festa rovinata, grazie alla messa a nudo dell'ipocrisia, il dissotterramento di antiche colpe, allo scopo di provare a scacciare complessi e angosce del passato, altrimenti inconsolabili. 
Vabbè, c'è quel pezzo di attore di Ulrich Thomsen (ma che ve lo dico a fare), ma anche una brava Paprika Steen (che era anche ne le mele di Adamo ed è la terza dei quattro attori che citavo prima). 
Se non lo avete visto vedetevelo, ma stomaco vuoto. 


Pusher di Nicolas Winding Refn del 1996

E' il 1996 e Refn non si immagina certo che nel suo futuro ci sarà Drive e Gosling con il giacchetto scorpionato. Totalmente inesperto si mette a girare un film semplice, di quelli che parlano di spacciatori piccoli che fanno una qualche cavolata e si trovano a dovere un sacco di soldi a spacciatori più grossi. Prende un Mikklesen (non ve lo aspettavate eh), rasato, pallido ed emaciato, agli esordi assoluti, e lo mette di fronte ad una macchina da presa a scappare e lottare per la sopravvivenza nei quartieri malfamati di una Danimarca violenta da far paura. La cosa gli riesce bene, il film diventa di culto, e ne gira altri due, forse migliori del primo. Pusher II e Pusher III (fantasia al potere). 
Disturbante, inquietante, consigliato a chi ha amato Trainspotting ed è pronto a vedere di peggio (ma meglio - forse).



L'eredità di Per Fly del 2003

Il potere economico, lo status sociale quanto cambiano le persone? O meglio, quando si passa dall'altro lato, quando si diventa parte di quel mondo che prima si criticava aspramente, è possibile non diventare un tutt'uno con questo, ma mantenere il proprio modo di vedere le cose, la propria integrità? Per Fly ci racconta la storia di Christoffer, un cuoco che dopo il suicidio del padre si trova a dover prendere le redini della acciaierie e dell'impero finanziario lasciatogli in eredità. La risposta del Regista alla questione è chiara, l'etica muta con le condizioni, non esiste un punto di vista univoco, il cambiamento, come adattamento e compromesso, altera e corrompe Christoffer nel profondo, minando anche la sua sanità mentale. Questo film, fortemente sponsorizzato dal caro von Trier, è stato anche criticato e tacciato di aver banalizzato i contenuti pur partendo da buone premesse. A me ha colpito per la capacità di mostrare le varie fasi della mutazione del protagonista e per il contenuto espressamente "politico" sebben non del tutto sviscerato. Guardatelo, poi mi fate sapere. Ah, indovinate chi recita la parte di Christoffer? Sbagliato! il fantastico Ulrich Thomsen (uh, ma ormai dovreste saperlo, quello biondo è Ulrich, quello moro è Mads). 


La ricostruzione di un amore di Christoffer Boe del 2004

Questo film me lo ricordo veramente poco. C'è un tizio (Nikolaj Lie Kaas) che incontra una donna e se ne innamora perdutamente, tanto da lasciare la fidanzata. Il giorno dopo però scopre che nessuno tra amici e colleghi lo riconosce più e quello che era il suo appartamento è completamente diverso. Io mi aspettavo che finisse con un complotto internazionale invece... Non dico altro. [Pure il trailer senza accenno ai dialoghi non aiuta, sembra una congiura per non far capire la trama]. L'ho citato per due motivi: il primo perché quando l'ho visto mi è sembrato particolarissimo è molto ben fatto, assolutamente surreale. Il secondo è perché non c'è nessuno dei due attori culto, Ulrich e Mads, bensì oltre al già citato Nikolaj Lie Kaas (che poi era il fratello Ulrich di Non desiderare la donna d'altri), anche Nicolas Bro (che era uno dei soggetti strani che vivevano alla parrocchia di Padre Ivan in Le mele di Adamo), così ne ho citati perfino 5, di attori. In realtà l'ho nominato anche per poter dire due parole del regista, Christoffer Boe, che è autore di un altro film per iper-cinefili, parecchio strano, e penso più famoso, che si intitola Allegro, straordinariamente complicato, tanto che pure questo, per poter dire qualcos'altro, lo dovrei prima rivedere.

Sono arrivata all'ultimo film che voglio nominare, certa che non esiste essere umano che possa esser arrivato fin quì. 


Il sospetto di Thomas Vintemberg del 2012

Mentre trepidavo in attesa dell'annuncio del vincitore dell'Oscar per il miglior film straniero, a Marzo scorso, tifando per Sorrentino, in cuor mio mi sentivo una traditrice. Thomas Vintemberg era infatti tornato ai fasti di Festen, ed era in lizza con questo Il sospetto, io però non me la sentivo di non tifare per il connazionale. Quello di Vintemberg è film piuttosto diretto, realistico, "senza fronzoli", che racconta di un insegnante accusato di pedofilia, in un ambiente provinciale dove le malelingue sono in grado rovinare la vita di una persona anche senza alcuna conferma ufficiale delle accuse infamanti. La caccia alla selvaggina diventa metafora della caccia all'uomo, prima oggetto di infamia e poi esaltato come vittima in base a come cambia il vento. Vintember sembra pensare anche al padre di Festen in modo però diametralmente opposto.  Se lì la colpa non era oggetto di discussione, qui invece il dubbio, il sospetto è il primum movens della vicenda, e la storia racconta la fragilità di ognuno di noi, in balia di sospetti e accuse in grado di rendere la nostra vita miserabile. 
Per quanto riguarda l'Oscar, si sa come è andata a finire; a conclusione dello sproloquio vi incollo la risposta su twitter del gentilissimo Ulrich Thomsen ad un mio commento sulla possibile vittoria dell'Italia all'Oscar. :-) (smiley face). 


   

martedì 10 giugno 2014

In ordine di sparizione di Hans Petter Moland

Stellan Skarsgård è Nils Dickman, un immigrato in Norvegia soddisfatto della propria semplice vita familiare e del proprio lavoro da spazzaneve, per cui ha appena ottenuto il titolo di cittadino dell'anno. In mezzo a tutta quella neve e silenzio, la sua esistenza è routinaria e rassicurante. Questo incanto si rompe quando suo figlio viene ucciso. Da quel momento la sua vita sarà completamente devoluta alla vendetta. Dickman imbraccerà le armi lasciando dietro di sè una lunga scia di omicidi di personaggi sempre piuttosto sopra le righe, dal killer ossessivo e vegano, alla coppia di scagnozzi gay che intrecciano una relazione segreta, al gruppo di criminali serbi, capitanati da Bruno Ganz, tanto spietati quanto imbranati. Uno dopo l'altro i personaggi appaiono e scompaiono in un rutilante e balletto che, come recita un commento dell'Hollywood reporter riportato sul cartellone del film "unisce la vendetta Tarantiniana all'ironia dei Coen". Tarantiniano infatti è non solo il modo freddo, brutale ma al tempo stesso ridicolo con cui viene sparsa questa discreta quantità di sangue, ma anche la scelta di alcuni dialoghi tra i killer che rimandano, per citarne uno, a Pulp Fiction. Coeniana appare invece la sagacia e il modo surreale di raffigurare questa vendetta, senza rinunciare a uno sguardo amaro sull'esistenza di alcuni dei personaggi presentati. In questo contesto umano l'atmosfera immobile del paesaggio fa da contrasto perfetto all'azione. Il regista norvegese Moland riesce a creare un'opera comunque originale, sebbene ricca di rimandi. Mentre con i propri tic alcuni dei killer finiscono per somigliare più a icone che a persone, Nick Dickman raccoglie in sè tutte le sfumature di una esistenza spezzata, privata del proprio equilibrio e senso, senza niente da perdere, che mi ha ricordato il Sordi di Un borghese piccolo piccolo. Perfetto Skarsgård con il suo sguardo malinconico e l'aspetto serafico anche nei momenti più truci, degno di nota Bruno Ganz, che fa da centro di alcune delle situazioni più divertenti del film. Un film che rimarrà impresso nella memoria di molti cinefili (presentato all'ultimo festival di Berlino, dove non ha vinto nulla, vabbè).